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1996 admin

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Non comprate questo libro

Il 10 novembre 1995 in Nigeria (pnl 29.6) vengono assassinati, per decreto di regime, 8 oppositori tra cui Ken Saro Wiwa famoso intellettuale e presidente del movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni. Il MOSOP si batte in particolare contro i disastri ecologici provocati dalle compagnie petrolifere, la Shell prima tra tutte, causa della devastazione di un territorio fertile e di un mare pescoso, abbondante risorsa per tutta la popolazione prima che venisse invasa dai pozzi di trivellazione all’insegna del benessere e del progresso.
È di qualche giorno la notizia di un’indagine governativa di Londra secondo cui la Shell avrebbe violato più volte l’embargo sulle armi decretato dalle Nazioni Unite contro il dittatore nigeriano, svelando così come il contrabbando delle armi della multinazionale inglese serva in realtà per rifornire la polizia locale posta a difesa degli insediamenti petroliferi, e ad arginare il malcontento della popolazione.
Il bastone e la carota, ovvero le armi automatiche della Shell e la cultura sponsorizzata dell’Agip. Proprio in questi giorni è uscita nelle librerie italiane una raccolta di poesie (bellissime), edita da jaca Book, di Chinua Achebe famoso poeta nigeriano, che fa parte di una collana di poeti africani interamente finanziata dall’Agip.
Il volume porta il simbolo del cane a sei zampe in bella evidenza sulla copertina, accanto a una nota estremamente significativa che dice: “sostenere la crescita e la diffusione delle conoscenze significa generare valore e sviluppo. Con questo spirito è nata la Biblioteca Agip e Kupfer, essa intende sia promuovere la cultura dei paesi dove Agip svolge la sua attività che stimolare il dibattito sulla cultura manageriale e d’impresa”.

Nota.
“Non comprate questo libro” è un appello che Francesco Di Tommaso ha lanciato tra le righe di una sua recensione del libro di Chinua Achee su Il Manifesto del 18 gennaio 1996

Tito Marci, In occasione dell'ospitalità. Ovvero, l’ospitalità dell’arte ostile.

IN OCCASIONE DELL’OSPITALITA’                                                           ovvero, l’ospitalità dell’arte ostile.                                                                           di Tito Marci

A proposito della mostra di Mauro Folci “Luoghi di produzione della cultura”, Museo Laboratorio d’Arte di Arte Contemporanea, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Marzo 1996.

Si tratta, senza dubbio, di un intervento occasionale, diagonale e ‘trasversale’: non entro nel merito dell’opera (artistica e politica) di Mauro Folci e, in particolare, nel merito di questa mostra. In effetti non ne ho competenza: non sono un critico d’arte, né, tantomeno, un critico dell’economia politica. Parlo dunque da ‘estraneo’, come un ‘ospite inquieto’.

Procederò per la traccia di brevi suggestioni, più o meno attinenti allo spirito dell’occasione; scusate dunque, fin d’ora, l’inevitabile debolezza di un’esposizione incompleta, nomade e priva di sistema.

L’occasione è una visita, un sguardo riflesso (e riflettuto) sull’opera in esposizione, a cui seguono parole, pause e pensieri lasciati lì, sospesi – donati e abbandonati – tra Mauro e me.

    1. Ospitare

Bene, Mauro mi ha detto dell’ospitalità.

Basta osservare: la sua mostra ospita idee altrui, musiche altrui: ci sono parole di altri, libri di altri (anche le foto esposte, i mobili, le cose appartengono – se c’è un appartenere – ad altri); la mostra ospita altri pensieri (o pensieri altri): se ne fa – per così dire – carico.

La stessa esposizione è un luogo dell’ospitalità; anzi, ne è il luogo privilegiato: si incontrano e si scambiano idee, si accolgono voci e si intrattiene il dialogo. Luogo dunque di con-fine (e di contatto): frontiera in cui si sta diTfronte; limite in cui c’è in-contro e in cui si scontra la reciprocità del finire.

Si pensi, ad esempio, all’opera Non comprare questo libro: tutto è un rinvio ad altrove. Di altri è il libro (una raccolta di poesie del poeta nigeriano Chinua Achebe) e di altri (Tommaso Di Francesco) è l’ingiunzione che sottrae l’oggetto alla cattiva utilità mercantile (o meglio, che sottrae la poesia alla sua stessa oggettualità). Beni, dunque, sottratti al commercio, alla logica viziosa dell’economicismo, sospesi nel luogo dell’ospitalità (si badi bene: in quel luogo che autenticamente rinuncia – per arte – al commercio); sospesi in quello spazio che offre rifugio e rimedio e che al contempo deliberatamente invita (lì sta una macchina fotocopiatrice) ad una riproducibilità velenosa, sovversiva e contraria alle leggi del mercato.

Mauro in effetti rinuncia a quel vizio arrogante dell’individualismo romantico: non rivendica l’originalità dell’opera, l’appartenenza e il possesso esclusivo dell’idea. Dona, al contrario, un luogo al pensiero, ne sottolinea una traccia (una delle possibili), un destino (una destinazione) ri-perorribile e ri-producibile in altri luoghi (o in luoghi altri), sottratti alla catena perversa del potere utilitario.

Ma cosa vuol dire ospitare: che significa ospitalità?

Il concetto di ospitalità è, a ben vedere, complesso e ambiguo: reca con sé, alla radice, tutta un’ambivalenza semantica (o meglio, tutta una semantica dell’ambivalenza): mette insieme (e pone in gioco) significati tra loro contrastanti, aspetti contrari, che fanno capo all’idea di ospite, di nemico e di straniero.

Si tratta dunque di una nozione che indica reciprocità ed esprime, al contempo, ostilità; che allude alla solidarietà e al contempo alla distanza; che richiede amicizia e, allo stesso tempo, inimicizia.

In effetti, nel vocabolario delle lingue indoeuropee, il termine ospitalità rivela, senza alcun dubbio, un’inquietudine fondamentale: sprigiona la potenza dei contrari, delle offerte ingannevoli, delle accoglienze-ostili e dei ‘doni-tranelli’; c’è tutta una pharmacia (una logica pharmaceutica) nel concetto di ospitalità – è in gioco il pharmakon ovvero, la dialettica dei rimedi-veleni.

Nella lingua latina il nesso semantico hostis-hospes, restituisce all’ospitalità tutta l’ambiguità del ‘porsi di fronte’, tutta l’inquietudine della reciprocità e tutta la diffidenza del ‘fare doni’: ostilità e accoglienza insieme (si pensi, del resto, che la pratica sociale del dono, come nei potlatch arcaici attraverso i quali si confrontano e si scontrano le diverse tribù, si consuma in un’atmosfera ambigua di amicizia e inimicizia, di solidarietà e ostilità, di estraneità e appartenenza, di pacificazione e competizione).

Dunque, l’inquietudine dell’ospite: l’inquietudine dello straniero, dell’amico-nemico (si guardi, tra le altre cose, al recente decreto sull’immigrazione!): ecco il paradosso: il concetto di ospitalità racchiude in sé, senza risolverli, termini contrari, poli semantici simmetrici e opposti, e li fa giocare, tra loro, in una dialettica indefinita, senza possibilità sintetica. Tanto si estende il dominio della ‘buona reciprocità’, tanto si insinua il seme della ‘specularità cattiva’.

A ben vedere Mauro, nel suo spazio espositivo, gioca proprio quell’ambiguo gioco dell’ospitalità: ospita inquieto anche i suoi nemici (si pensi. del resto, al Pianoforte preparato di casa Mastella; si pensi ai Luoghi di produzione della cultura, all’ Economia di guerra).

Ospita il capitale, l’industria e il mercato: ne espone il lato perverso, il più occulto: e proprio in questo, il gioco dell’ospitalità rivela tutta la sua ambivalenza, la stessa dalla quale si origina: reciprocità ostile, speculare alla stessa ambiguità degli ospiti (Mastella, Krupp, ecc.): perché ambiguo e perverso è il discorso del potere, del capitale e del sistema di mercato.

Si ri-produce così l’ambivalenza di quella fetta di società ospitata (in verità è la rappresentazione di quella stessa società che trova un luogo nell’esposizione); di quella stessa società ‘opulenta’ nella quale siamo ospitati e al contempo esclusi. Ma la riproduzione-rappresentazione questa volta non gioca a favore della continuità (della ri-produzione economicista): ne interrompe anzi il circuito. Una volta individuato, una volta rappresentato, si sà, il paradosso del ‘progresso’ è reso inefficace, inoperante: è sottratto alla sua innocenza perchè riflettuto nella sua ambiguità (l’ambiguità della tecnica che rimane efficace finché resta nascosta) . Al contrario di ogni ri-velazione (che nello svelare pone un nuovo velo) l’ermeneutica dell’ambivalenza (ovvero, la pratica critica dell’ospitalità) scopre (e si scopre) per sottrarre: non per nascondere di nuovo. Denuncia (porta allo scoperto) quei paradossi occulti della produzione (della ri-produzione del potere mercantile) per rendere visibile la logica viziosa che ne è ragione, che ne sta alla base e che ne determina il perverso linguaggio. Rappresentazione, dunque, che inibisce la continuazione, la fluttuazione di quel codice al quale troppo spesso siamo assuefatti; che pone lo skandalon (la pietra che intralcia). Forse solo in questa dimensione acquista paradossalmente un senso la critica culturale: snidare i paradossi per renderli inefficaci: ri-produzione per sottrazione.

Ecco dunque l’inquetudine dell’ospitalità: luogo, forse incoffessabile, del paradosso: luogo della moltiplicazione delle ambivalenze, dell’eccedenza che perde per la possibilità di sottrarre.

Di fronte al ‘salotto’ (il divano, le poltrone, il tavolino) ricoperto di teli bianchi avvertiamo in effetti un’atmosfera inquieta: tutto quel bianco ‘sterilizzato’, quel ‘candore’ neutro del telo che ricopre per nascondere: luoghi di produzione della cultura. Non possiamo sederci tranquilli. Che nasconde quel bianco? Quale inganno si cela? Che c’é sotto? Quale trucco?

Come per il cavallo di Troia, per il vaso di Pandora, per il fuoco di Prometeo, il dono che inganna è il dono che nasconde. Nascondere, se ancora non lo si è capito, vuol dire ingannarre, truccare.

Attenti alle belle apparenze, ai bei simulacri, alle belle forme dell’arte! Attenti ai doni- veleni, alle offerte ingannevoli degli Dei! Attenti alla statua della Madonna che domina complice il Pianoforte preparato di casa Mastella!

Non è, si creda, ‘cultura del sospetto’: è radicato sospetto per la cultura! Fine e compimento delle grandi narrazioni.

Donare

Dunque, l’ospitalità nella sua ambivalenza, non è altro che un luogo del dono: anzi, è proprio il luogo dove il dono scompare, o meglio, il luogo dove il dono paradossalmente non ha luogo.

In effetti l’ospitalità mette in scena il circuito sociale del dono (quando il dono è elevato a sistema sociale) evidenziando nella reciprocità – nel dare, ricevere e ricambiare – la sua stessa impossibilità. Ecco il paradosso: il dono resta impossibile, ineffabile nella sua stessa possibilità. nella sua stessa esperibilità sociale. Questo proprio quando il dono, in quanto implode l’idea di scambio, pone in essere il rapporto, il legame sociale.

Del resto, noi conserviamo spesso un’idea ingenua di ciò che significa il dono: lo pensiamo spesso come qualcosa di assolutamente gratuito, come un gesto unilaterale e altruistico (il riferimento immediato è in effetti alla Grazia, così come ci proviene dalla tradizione giudeo-cristiana).

il donare invece, quando si fa comunicazione, implica e pone l’idea di reciprocità: alla spontaneità associa l’obbligo (di contro-donare, di ricambiare, di restituire, di ringraziare); alla generosità la costrizione: ci si sente in obbligo verso chi dona: ci si sente legati. Ma come può la spontaneità (il gesto gratuito) coincidere con l’obbligo (la necessità del ricambiare)? Ecco il paradosso in cui il dono si rivela nella sua stessa assenza: si può produrre autenticamente della spontaneità? Dobbiamo fare seriamente i conti con il principio aristotelico di non contraddizione: A è uguale ad A e diverso da NON-A non può esserci complementarietà degli opposti, simultaneità dei contrari. Ma il dono, ecco il punto, ha il suo fondamento (che è la sua stessa infondatezza) nel paradosso che esso stesso pone: è un ‘insieme non contraddittorio di obbligo e spontaneità, di legame e gratuità, di regalo e veleno, di interesse e disinteresse, di utile e inutile, di alleanza e ostilità. A tal proposito ci è d’aiuto l’antropologia: il potlatch, il sistema dei doni reciproci, praticato in prevalenza nelle tribù Nord-americane, attraverso il quale si fonda la comunità arcaica nella sua dimensione ‘totale’ (sociale, giuridica, economica, etica, politica e religiosa), mescola la gratuità con la restituzione, il prestito con l’usura, la perdita con l’interesse; e tutto questo avviene in un clima di sfida, di competizione, di pro-vocazione e distruzione.

Ecco il punto: il dono, quando è elevato a funzione sociale, si dà in quanto paradosso: pone in essere una pratica ambivalente che oscilla tra i termini di linguaggi contrari. Si dà nel suo stesso sparire.

Ora, perché il dono a proposito di questa esposizione?

I percorsi dell’opera di Mauro Folci ci fanno in effetti pensare che ancora nell’arte può accadere qualcosa che non sia interamente riducibile alla logica perversa del mercato, al potere che accumula e capitalizza per se.

In tal senso siamo fermamente convinti che il discorso di Mauro esprima essenzialmente un linguaggio politico, e non dal lato ottuso dell’ideologia, ma in quanto ricerca autentica di quel luogo in cui il politico si dà come sostanza, ovvero: il luogo della comunità.

Il pretesto è un’urgenza: Mauro lo fa capire chiaramente: è un discorso necessario, la ‘situazione’ lo richiede.

Ma ecco ciò che ci interessa: la logica del dono pone un paradosso irriducibile alla dimensione del mercato, irrisolvibile dal punto di vista dell’utilitarismo economicista. Si è già detto, il paradosso del dono si sottrae al potere del capitale produttivo: si dà nella perdita (nel potere che perde), nel consumo smodato, non certo nella capitalizzazione.

E il dono, in quanto prassi (in quanto apertura che rinuncia alla sua inconfessabile impossibilità). dispone, pur nella spontaneità, un tessuto di reciprocità: la triplice obbligazione del dare, ricevere e ricambiare. Fonda e rimarca il legame sociale, quel legame paradossale (in cui coincidono obbligo e spontaneità, interesse e disinteresse, gratuità e costrizione) su cui si costituisce e si nutre la comunità (la koinona politike di Aristotele): è la logica della philia.

Comunità ha alla radice il munus (in latino il termine munus designa sia la ‘carica pubblica’, sia il dovere di donare, di dare in ricompensa). La comunità è di chi ha in comune dei munera. di chi condivide il dono come sistema di relazione. Di nuovo il paradosso: si deve donare, è necessario scambiare i doni: ma come è possibile se il dono è un gesto spontaneo, se scompare in ogni costrizione, se svanisce nel calcolo, nel desiderio di restituzione?

Ecco: la comunità nel suo intimo è ‘assenza di comunità’. E questa assenza non ne è il suo scacco, la sua fine, quanto la sua verità segreta, la più intima. Nella comunità (mi riferisco alla filosofia di Bataille e Blanchot) gioca proprio questa sparizione: dunque il paradosso. Il suo luogo autentico è lo spazio in cui essa stessa scompare, in cui si nega in quanto bene, in quanto oggetto, in quanto ‘reale’. La comunità si dà in quanto sacrificio della sua stessa utilità, in quanto negazione del suo esser ‘cosa’: l’impossibile comunità: dono di assenza, dono dunque inconfessabile.

Il dono in effetti sacrifica, nega la cosa (il bene) nella sua utilità: distrugge e non conserva (si pensi al potlatch). Il dono che è abbandono non produce alcunché: di qui il paradosso della comunità improducibile, di quella comunità che si fonda nel dono e nello stesso trova la sua sparizione.

Mauro, si è detto, dona luogo alla voce, al suono e al pensiero altrui (non rivendica l’originalità individuale): si fa carico di altre voci, offre loro uno spazio per parlare, ne fa luogo di incontro e dunque, di reciprocità e di legame.

Mauro comunica (anche la comunicazione reca in sè il munus: la comunicazione è di chi condivide i munera, di chi scambia dei doni, la comunicazione evoca la reciprocità; il comunicare passa in tal senso per il donare); l’esposizione stabilisce legami che sottrae all’impero dell’utile, all’universo mercantile. Nella comunicazione non c’è solo informazione: c’è dono nella sua intima accezione: c’è abbandono: ‘abban-dono’ di sè. ‘abban-dono’ all’altro (al Tutt’altro); e, al contempo, c’è abbandono di quella regola di interesse che fa la logica del mercato. Vi è dunque in gioco tutt’altra logica vi è in gioco tutt’altro linguaggio: la rete del dare, dell’ospitare e del rilanciare.

Il linguaggio del dono si fa dunque paradigmatico: ma è proprio il paradosso (lo stesso del dono) che si fa paradigma, che aumenta la sua capacità sovversiva, il dono (in quanto paradosso) sovverte l’ordine degli interessi, l’ordine del capitale, il codice del mercato: sacrifica ciò che accumula, distrugge ogni eccedenza: ma proprio in questo rimarca il legame (il legame sociale primario), rifonda il rapporto (di reciprocità) sottraendolo alle logiche dell’intermediazione.

In tal senso la comunicazione, sfera in cui è in questione la comunità, è luogo di con-fine, di frontiera e d’in-contro.

Ma il luogo di incontro è anche luogo di scontro: non si sfugge a questa ambivalenza, all’inquieta ambiguità ‘dello star di-fronte’: non si sfugge al paradosso del dono, regalo e veleno insieme. Dunque, l’altra faccia, quella nascosta del dono (le lastre di acciaio di Krupp – Economia di guerra; la ‘madonnina’ di Mastella; Luoghi di produzione della cultura), moltiplica le sue infinite metafore: l’ospitalità si fa ostile. E’ in gioco il dono perverso (non c’è solo un dono assolutamente innocente. ‘buono’ e altruista: tiriamoci fuori dall’ingenuità dei buoni ‘anti-utilitarismi’, dalla vischiosità delle strategie ‘morbide’). La solidarietà è spesso una pratica ostile: rimarca la distanza, la competizione e la sfida: c’è sempre nella solidarietà un ché di insolidale.

Siamo dunque nei territori paradossali del dono, alla radice di ciò che chiamiamo comunità.

Se c’è quindi ‘politica’ nell’arte di Mauro, questa va ricercata proprio in quell’indicibile che sta al centro stesso dell’idea di comunione: in quel non-essere della comunità che è la stessa comunità. Occorre cercare nell’in-utile, in quell’in-utilità che attribuiamo al dono: nell’utile, ma oltre l’utile; nell’in-utile più utile.

Il dono infatti non esclude l’utilità, ma ne eccede la misura. Se percorre la logica dell’utile (dello scambio), ne trascende comunque il valore (la dimensione normativa): è altrove, nella gratuità senza scopo.

Così è l’autentico movimento dell’arte: appunto perché inutile, gratuita e senza alcuno scopo utilitaristico, l’arte stessa è più utile: utile al darsi della comunità nella sua intima inutilità, nella sua in-utile assenza: ecco il paradosso.

in tal senso l’opera di Mauro può allora apparirci paradossalmente in-utile: in quanto non utilitarista, ma proprio per questo utile: in quanto ripercorre al fondamento l’essenza paradossale del farsi comunità: in quanto essenzialmente in-politica (nella e oltre la politica; alla costituzione e nell’assenza del politico stesso).

Nei giochi mimetici del pharmakon, delle theknes, del rimedio che è in se stesso veleno (uso metafore platoniche), l’arte riattinge dunque alla sua necessaria ambivalenza: è luogo di dono e abbandono, di ostile ospitalità, di obbligazione gratuita: è luogo che supplisce l’assenza di luogo.

Tito Marci

1Seguendo sommariamente la ricostruzione etimologica che Emile Benveniste dà del concetto di ospitalità, emergono, senza dubbio, dei dati significativi.

In latino ‘ospite’ é detto con hostis e hospes che ha radice nel composto *hostis-pet- (il suffisso *pet- indica, originariamente, l’identità personale).

La nozione più antica (primitiva) di hostis è quella di ‘uguaglianza per compenso’: è hostis chi compensa il mio dono con un contro-dono (hostis si lega dunque al senso di reciprocità espresso nella pratica sociale del dono, al senso dello scambio per doni).

A un dato momento hostis ha indicato l’ospite: si pensi, del resto, che l’ospite, sin dall’antichità, è colui che reca i doni, i ‘doni di accoglimento’. Il senso classico di ‘nemico’ è invece apparso, presumibilmente, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono succedute le relazioni di esclusione da civitas a civitas. Da allora il latino usa ed esprime un nuovo termine per l’ospite: l’hosti-pet, che va forse interpretato a partire da hosti (in astratto ‘ospitalità’), e significa, di conseguenza, ‘colui che impersona eminentemente l’ospitalità’.

Il senso di ostilità che è venuto ad acquistare il termine hostis, passa dunque per l’idea di ‘straniero’ (si pensi che nella lingua greca il termine xenos indica sia l’ospite che lo straniero, ovvero, allude a coloro che si trovano nell’obbligo di scambiarsi dei doni). Ostile è colui che si pone fuori dai confine della cìvitas: lo straniero diventa nemico: è esterno alla civiltà: è il ‘barbaro’. Di qui la semantica della ‘cattiva reciprocità’.

Per un approfondimento migliore si veda comunque Emile Benveniste, Le vocabulaire des institutions indoeuropéennes, vol. I. Economie, parenté, societé, Paris, Minuit, 1969; trad. it., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, Torino, Einaudi, 1976, pp.64-75.

Nella mitologia greca (si veda in special modo Le opere e i giorni e la Teogonia di Esiodo) il senso del dono (doron) è spesso associato a quello del dolo, del furto e del tranello (dolon). Tale associazione passa sempre per l’occultamento, per il nascondimento fondamentale che custodisce l’inganno: ‘nascondere il fuoco’, nascondere il veleno dietro le sembianze del bello (Pandora), nascondere la fatica dietro l’ausilio delle theknes. nascondere il marcio dietro il bel coscio di agnello. Al nascondimento di Prometeeo corrisponde il nascondimento degli Dei: tutto circola per il linguaggio perverso dei doni offerti, accettati e ricambiati.

Sempre nella lingua greca il termine dosis indica sia il dono che il veleno (la ‘quantità data in rimedio’). Socrate di fronte all’assemblea degli Ateniesi si definisce (nella testimonianza di Platone nell’Apologia) un dono offerto alla città dagli dei (dosis), e proprio per questo un rimedio fastidioso, scomodo e velenoso (tutti conosciamo la fine di Socrate!).

Allo stesso modo nelle lingue germaniche, come ha sottolineato giustamente Marcel Mauss, il termine gift può significare sia il dono che la pozione (l’incantesimo e appunto il veleno).

Il 10 novembre 1995 in Nigeria (pnl 29.6) vengono assassinati, per decreto di regime, 8 oppositori tra cui Ken Saro Wiwa famoso intellettuale e presidente del movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni. Il MOSOP si batte in particolare contro i disastri ecologici provocati dalle compagnie petrolifere, la Shell prima tra tutte, causa della devastazione di un territorio fertile e di un mare pescoso, abbondante risorsa per tutta la popolazione prima che venisse invasa dai pozzi di trivellazione all’insegna del benessere e del progresso.
È di qualche giorno la notizia di un’indagine governativa di Londra secondo cui la Shell avrebbe violato più volte l’embargo sulle armi decretato dalle Nazioni Unite […]

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