Il pollo e il falsario

Il pollo e il falsario
2015 mauro
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Il pollo e il falsario

(pubblicato in: Lebenswelt n 13, 2018) https://riviste.unimi.it/index.php/Lebenswelt/article/view/11119

 

A un tale che gli assestò un colpo con una stanga e poi gli disse: “Sta’ attento!”, egli, dopo averlo colpito con il suo bastone, disse: “Sta’ attento!”

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, 673).

«L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» (Spinoza 2000, Proposizione VII, L. 2, 127), la sostanza pensante e quella estesa del corpo sono la stessa ciò che cambia sono gli attributi che solamente si danno a vedere in forme diverse, «così anche un modo dell’estensione e l’idea di quel modo sono una sola e stessa cosa, ma espressa in due modi» (Spinoza 2000, scolio della proposizione VII, L. 2, 128).

Sono in spiaggia, esposto alla noia guardo i bagnanti sotto la calura agostana. Sono in un caffè, dalla vetrina guardo la strada alla maniera di George Perec. Siedo per un intero pomeriggio di una domenica sul balcone di casa, come prescrive Jean Tarrou (1), per non perdere il proprio tempo, e ciò che vedo è probabilmente quel che vedeva Spinoza per le vie di Amsterdam o dell’Aia: «I corpi si distinguono l’uno dall’altro in ragione del movimento e della quiete, della velocità e della lentezza, e non in ragione della sostanza» (Spinoza 2000, Lemma I della prop. XIII, L. 2, 135) che invece è unica e indivisibile.                                                                          Estensioni instabili, corpi fluttuanti in un universo di passioni determinati nel movimento e nella stasi da forze esterne, da altri corpi a loro volta mossi da altri corpi e così via. Viene da pensare al macchinismo del regime delle immagini che Gilles Deleuze riprende da Henri Bergson: «l’universo materiale, il piano d’immanenza [multiplo e instabile anch’esso e suddivisibile in blocchi spazio/tempo], è il concatenamento macchinico delle immagini-movimento» (Deleuze 1983, 78). In entrambi i sistemi ci sono le percezioni, ci sono le azioni e in mezzo ci sono le affezioni.            Cosa sia il proprio del gesto su un piano di consistenza così scontornato e fosco davvero non saprei dire. Davvero non so, non so proprio dove sia il gesto e soprattutto dove non è.                                                                              Con Diogene di Sinope, il personaggio raffigurato nelle due stampe rinascimentali (fig. 1), vorrei iniziare il mio intervento limitatamente al possibile di un gesto autenticamente sovversivo ed espressivo di una forma di vita veramente altra.

A sinistra abbiamo il Diogene di Gian Giacomo Caraglio (1527), a destra quello di Ugo da Carpi (1526-27). Quest’ultimo è menzionato dal Vasari come il capolavoro del Carpi e molto noto per tutto il ’500. L’ideazione dell’opera è del Parmigianino e la copia fedele all’originale è quella del Caraglio.                                                                                                                         Il soggetto ritratto è facilmente riconoscibile come Diogene il cinico, a identificarlo ci sono tutti gli attributi: la botte, la lanterna, il bastone, la bisaccia e il mantello che appena copre le sue nudità; è raffigurato pressoché identico in entrambe le stampe, vediamo un Diogene nella postura insolita di un Poseidone con il mantello rigonfio dal vento che pare provenire dalla bisaccia stretta al petto, uno strano uccello senza piume sul fondo e in primo piano dei libri, due sono aperti, altri fungono da leggio o da basamento. C’è però una differenza sostanziale che emerge osservando il libro aperto tenuto fermo dal bastone di Diogene: nella stampa del Carpi si intravede un testo scritto, verosimilmente di filosofia, in quella del Caraglio la figura geometrica di un dodecaedro che poco ha a che fare con il filosofo cinico che, si sa, non amava la matematica, la geometria e le scienze in generale. Qui infatti presumibilmente ci si riferisce a un altro Diogene originario di Apollonia (Diogene Laerzio 2005, 689) (2) un fisico e alchimista che visse un secolo prima del filosofo canino, ipotesi plausibile visto che il Parmigianino ad un certo punto della sua breve vita abbandona la pittura per dedicarsi all’alchimia.                                                                     Nel Rinascimento c’era sicuramente un po’ di confusione sulla figura di Diogene il cane come testimonia l’opera del Parmigianino con la con-fusione dei due Diogene, ma c’è anche chi interpreta la relazione tra il filosofo cinico e il dodecaedro, pensato come il quinto elemento della figurazione cosmica di Platone (3), come la classica contrapposizione Platone/Diogene. Probabilmente la correzione apportata dal Carpi, la sostituzione della figura geometrica con un testo scritto, a ristabilire ciò che è del filosofo cinico, è forse conseguenza di questa antica polemica. Se si mette in relazione la presenza del dodecaedro con il surreale uccello spennato che appare identico nelle due stampe alle spalle di Diogene, l’intento polemico appare ancor più verosimile: alcuni interpretavano questa immagine come una parodia volta a denigrare la figura di Diogene, con riferimento alla nudità e alla forma di vita essenziale come quella degli animali, e quindi un buffo Diogene visto come un pollo spennato. Altri al contrario e a ragione, conoscendo evidentemente l’opera di Diogene Laerzio, consideravano la stampa del Carpi una esaltazione delle virtù del filosofo cinico nei confronti di Platone. Laerzio infatti racconta l’aneddoto in cui Platone dissertando con i suoi allievi su l’essenza ultima degli uomini giunse a definire l’uomo «un animale bipede, sprovvisto di piume». Erano tutti concordi con questa definizione, tutti tranne Diogene che, uscito dall’accademia, vi fece ritorno poco dopo con in mano un gallo spennato dichiarando: «‘questo è l’uomo di Platone’. Perciò alla definizione fu aggiunto anche questo requisito: ‘con le unghie larghe e piatte’» (Diogene Laerzio 2005, 647-749, § 40).                                                                                 La contrapposizione tra l’immagine-concetto di animale bipede implume e l’immagine caricaturale di uccello spennato nell’interpretazione performativa di Diogene è certamente l’elemento di tensione e di articolazione che tiene in piedi l’intera opera, poiché appare chiaro che una cosa è dire implume altra cosa dire spennato: implume è una qualità naturale di alcune specie animali, mentre spennato è ciò che rimane di un corpo animale che si presume naturalmente piumato. Il senso dell’aneddoto coglie chiaramente una modalità o un atteggiamento diverso riguardo la filosofia, una analitica, la ‘tazzità’ e la ‘tavolinità’ (Diogene Laerzio 2005, 661, § 53-54), l’altra di vita ‘la tazza’ e il ‘tavolo’. L’immagine surreale del pollo spennato nell’opera del Parmigianino esplicita in modo diretto la teoresi cinica. Diogene non cerca la verità del discorso accademico, al contrario di questo tutto imperniato sull’idea, egli mostra la verità come è nella realtà, nella sua carnalità messa a nudo come un uccello senza piume: «è il non-nascondimento che si mostra semplicemente allo sguardo» (Brandt 2000, 181) (4).                                                                                                E poi c’è la postura insolita di Diogene che qui è raffigurato con un corpo atletico, più vicino alle sembianze di un severo dio degli elementi – Reinhard Brandt suggerisce il dio Poseidone «il vento gli scompiglia i capelli» (Brandt 2000, 169) – che a quelle di un uomo. Di certo ha una postura da Signore e non da uomo di strada spogliato di ogni bene, sembrerebbe più la figurazione del re-filosofo, tema all’epoca ben noto, che la rappresentazione di un mendicante impertinente quale di certo Diogene è stato. Ma è così, quel Marcantonio con quella postura regale è Diogene, un tipo che non si accontenta di annullare le differenze tra il potere regale e la saggezza del filosofo come auspicava Platone, perché egli è il re anti-re «che non tollera alcun re sopra di sé, bensì governa se stesso in base alla legge di natura ed è con ciò autonomo» (Brandt 2000, 165).                                          Le diverse ragioni che ruotano intorno alla regalità – tema che trovo quanto mai attuale nella nostra epoca dove regna egemone la Kadavergehorsam (5) – si trovano a confronto nell’episodio raccontato da Laerzio dell’incontro di Alessandro Magno con Diogene: «mentre egli stava prendendo il sole nel Craneo, Alessandro Magno gli si pose in piedi davanti e gli disse: chiedimi quello che vuoi. E quello gli rispose: non farmi ombra» (Diogene Laerzio 2005, 645). Questa storia è tra le più significative del manifesto filosofico dei cinici: autonomia e supremazia del soggetto sul normato, sovrano e teso verso una vita di godimento. Non sfugge a nessuno, decisiva chiave di lettura dell’aneddoto, che l’incontro di Alessandro con Diogene non avviene nel palazzo del sovrano, Diogene non è convocato a palazzo come è di consuetudine in questi rapporti di comando e sudditanza, ma nel Craneo che è un boschetto di cipressi nel sobborgo di Corinto, all’aperto, alla luce del sole, «e allora, come riteneva Giuliano l’Apostata, è Diogene che qui, al contrario, convoca Alessandro» (Brandt 2000, 165).                                      Non sappiamo se la storia, riportata da Laerzio e dipinta dal Parmigianino sul pollo spennato o implume, corrisponda a un fatto realmente accaduto: sappiamo invece che la definizione di animale bipede implume si trova nel Politico ma tra i personaggi del dialogo e gli astanti non compare Diogene. Platone usa un metodo di indagine che spezza, divide e compara fino a delineare le qualità e le competenze peculiari dell’uomo regio, cioè politico, e quel che segue è la forma più breve per giungere alla definizione di re:[dice lo Straniero] ebbene, affermi che si sarebbe dovuto sin d’allora dividere subito gli animali che camminano nel genere dei bipedi contrapposto a quello dei quadrupedi, e, visto che il genere umano era ancora unito dalla sorte al solo genere degli alati, si sarebbe dovuto tagliare di nuovo il gregge dei bipedi in implumi e pennuti; fatta questa divisione, e già allora messa in evidenza l’arte del pascolare gli uomini, prendendo l’uomo politico e regio come auriga e imponendolo ad esso, affidargli le redini dello Stato, perché a lui sono familiari, e perché è lui che possiede questa scienza (Politico, 266c-267c, p. 327).                                                          È un tema noto nella filosofia antica quello della regalità o della vita sovrana, che tradizionalmente vuol dire essere padroni di se stessi, essere in possesso di sé avendo come fine il godimento.                                            Michel Foucault, che significativamente ha dedicato il suo ultimo corso in gran parte alla filosofia cinica e in parte minore all’arte cinica, pone il tema della vita sovrana come passaggio limite e di capovolgimento della nozione di ‘vera vita’ che precedentemente aveva individuato – non prima di aver tipicizzato la parresia cinica – nella vita non dissimulata, nella vita indipendente e nella vita diritta (cfr. Foucault 2009, 212-213): la vita sovrana è l’ultimo capovolgimento e il più essenziale e caratteristico della vita di verità cinica, «la vita sovrana è una vita di godimento: godimento-possesso, godimento-piacere» (Foucault 2009, 259). Ciò vuol dire trattenere un rapporto con il sé in funzione del godimento ma c’è dell’altro, la vita sovrana istituisce, gioco forza, una relazione con l’altro e con gli altri: la conoscenza di sé, in godimento e in piena autonomia, non chiude il soggetto in uno stato solipsistico ma lo espone al rapporto con gli altri nella forma, ad esempio, del soccorso, della solidarietà, della guida, del sostegno all’amico. Se il vero re sia il filosofo o il re politico era una questione dibattuta perché presenta alcuni aspetti contraddittori, come lo stesso episodio dell’incontro tra Diogene e Alessandro sta a dimostrare: Alessandro si presenta davanti a Diogene alla pari, lascia a casa generali e consiglieri e si presenta a Diogene da uomo a uomo, certo le differenze sono abissali e si notano, il cinico è seminudo mentre l’altro indossa gli orpelli del sovrano, ma Alessandro si comporta effettivamente come un re filosofo, tra l’altro, si racconta altrove che, alla domanda su cosa avrebbe voluto essere se non fosse stato Alessandro Magno, quest’ultimo rispose: Diogene.          Ma la sovranità cinica è cosa diversa, direi irriducibilmente diversa da quella del filosofo re, perché Diogene taglia irrevocabilmente con ogni sovrastruttura, taglia via ogni legame con lo Stato e le sue leggi. I cinici sono contro la democrazia ma non per i motivi di Platone che considerava la libertà di esprimersi dei cittadini sul governo della città causa di corruzione e di abbassamento e livellamento del discorso pubblico, i cinici lo sono perché in modo radicale rifiutano ogni tipo di ordine costituito, non riconoscono cioè alcuna autorità. Sono degli anarchici senza patria né leggi, senza famiglia né figli perché coerentemente con la loro filosofia di vita sono cittadini del mondo intero: «[Diogene] diceva, altresì, che l’unica retta cittadinanza è quella del mondo intero» (Diogene Laerzio 2005, 679, § 72). Il cinismo antico con il suo radicale ritorno alla natura e con la sua totale avversione alle dottrine idealistiche e a qualunque forma di costituzione, è un movimento filosofico che si pone in termini antistorici. Sentite cosa racconta André Leroi-Gourhan a proposito del processo di razionalizzazione del linguaggio e della formalizzazione delle lingue a seguito dello sviluppo della metallurgia e dei raggruppamenti urbani e del divertente paradosso che ne scaturisce in considerazione dell’antistorico: «si possono datare al 3.500 a.C. circa i primi germi mesopotamici della scrittura. Duemila anni dopo, verso il 1500 a.C. apparivano in Fenicia i primi alfabeti consonantici, e verso il 750 si diffondevano in Grecia gli alfabeti vocalici. Nel 350, la filosofia greca è in piena fioritura» (Leroi-Gourhan 1965, 247). Ora se pensiamo che Diogene è vissuto (forse) dal 412 al 323 a.C. e che l’incontro a Corinto tra Diogene e Alessandro è datato 336. a.C., è facile constatare che la Storia ha inizio e già viene percepita da alcuni come una malattia; nascono la Storia e la retorica, la bella scrittura, e già il concetto correlato di uomo storico entra in crisi. Antistene (cfr. Diogene Laerzio 2005, 619, § 13) (6), allievo di Socrate, iniziatore del cinismo e maestro di Diogene di Sinope, aveva per la prima volta stabilito cosa fosse una definizione (cfr. Diogene Laerzio 2005, 611), e già la Storia intesa come processo lineare di accumulo di saperi e di emancipazione dalla natura viene contestata.        Del resto come potrebbe essere altrimenti, se la Storia è dialettica cioè Azione negatrice va da sé che il processo storico sta in relazione con l’antistorico: stato/antistato, Alessandro/Diogene.                                              Ma Diogene non è dialettico, men che mai sulle questioni che riguardano la sovranità del soggetto: egli è l’unico e vero re. Ci tengono i cinici a ribadire questa idea di sovranità rimarcando che il re Diogene si pone di fronte al re Alessandro come un re anti-re (cfr. Foucault 2009, 262-263). Se Alessandro è Magno, Diogene è anarchico, e dunque è chiaro che il cinico mette al bando non solo il re macedone ma ogni forma di dominio politico dell’uomo sull’uomo: «Diogene concorda certamente con tutti i socratici sul fatto che l’uomo deve conquistare il dominio di sé», ma proprio in conseguenza di questo, «l’unica forma di socializzazione che Diogene può sostenere è quella in cui nessun uomo domina l’altro» (Brandt 2000, 174).                            Certo non è facile scorgere dietro le fattezze di un cinico le virtù dell’autentica regalità, Diogene è il re ma nessuno lo sa, chi vuoi che se ne accorga così mal concio come un cane randagio; ma egli volontariamente si nasconde dietro la vita che dà scandalo, egli si pone con convinzione fuori dal sistema, si nasconde lui stesso in quanto re: «In questo senso egli è un re ma un re della derisione. È un re della miseria, un re che nasconde la sua sovranità nella spoliazione ma anche attraverso la resistenza volontaria, il lavoro perenne su se stesso attraverso il quale spinge sempre più avanti i limiti della sua sopportazione» (Foucault 2009, 265).                                      Tra Diogene e Alessandro c’è un patto sul parlar franco, ambedue hanno accettato il gioco parresiastico di dire tutta la verità con franchezza e coraggio, hanno accettato il rischio dell’offesa e dell’oltraggio. Alessandro come si è detto si presenta anch’egli seminudo, spogliato del palazzo e delle guardie si dispone e si espone, come Diogene, al gioco della parresia. Ma se anche Alessandro che di mestiere ammazza gente è capace di giocare al dire il vero con franchezza, che cosa è che caratterizza la parresia cinica? Il parlar franco a se stessi e agli altri è una disposizione naturale al prendersi cura di sé, dico naturale perché ovviamente la cura del sé esisteva ben prima della concettualizzazione socratica, ciò che distingue i cinici però è che il loro parlar franco e con coraggio su di sé è pratica talmente profonda e radicale che ciò che restituisce è una vita modellata fuori misura, una vita di verità veramente altra. La vita dei cinici è una vita coraggiosa e da combattimento esposta alla violenza degli altri per il modo polemico con cui dicono la verità ma anche, è questo che interessa molto Foucault e noi con lui, «si rischia la propria vita non solo dicendo semplicemente la verità, non solo per dire la verità, ma anche per il modo in cui si vive» (Foucault 2009, 226). Si rischia la vita conducendo una vita di verità scandalosamente altra, insopportabilmente deviata. Ecco ciò che caratterizza la parresia cinica, il coraggio di dire la verità è critica profonda di sé e critica radicale al potere. Il cinico dice la verità attraverso il proprio comportamento, la propria estetica di vita; egli lavora duramente su se stesso per modellare il proprio corpo e per controllare minuziosamente il flusso di immagini che esso stesso produce. È un lavoro d’artista scrupoloso, minuzioso, i critici d’arte direbbero rigoroso. È una gestualità d’artista.                                                Sotto i colpi della parresia coraggiosa, due sono le forme ciniche della cura del sé: «Il coraggio di dire il vero quando si tratta di scoprire l’anima. Il coraggio di dire il vero quando si tratta di dare alla propria vita una forma e uno stile» (Foucault 2009, 159). Ciò che interessa Foucault negli ultimi anni, ossia le relazioni tra soggetto, discorso e verità, ritornano nell’ultimo corso come un inestricabile intreccio tra la pratica della cura del sé e una qualificata ‘estetica dell’esistenza’. Egli torna a domandarsi come il coraggio di dire il vero si sia intrecciato con «il principio dell’esistenza come una opera da plasmare» (Foucault 2009, 161). Come la vita si sia trasformata in oggetto estetico. Il cinico è sovrano, è un artista che produce se stesso come opera d’arte, un autentico artista bohémien ante litteram, è un militante che conduce, a mezzo della rinuncia, dello scandalo e del parlar franco con coraggio, una lotta per cambiare il mondo intero; non c’è solo la ricerca della vita bella e sovrana che ha portato all’inversione del classico tema della vita vera in una vita altra, ma attraverso la vita scandalosamente diversa si prospetta materialmente un mondo altro: «Davvero, dopotutto, il militantismo rivoluzionario del XX secolo è anche questo: questa sorta di regalità, di monarchia nascosta sotto gli orpelli della miseria» (Foucault 2009, 274).                                                                                                        Abbiamo già detto della scarsità dottrinale del cinismo antico e Diogene di Sinope è un filosofo come potrei esserlo io: «ambè, questo se la prende con filosofia», usava dire mia madre quando da ragazzo mi vedeva perso, lo diceva però, ci tengo a dirlo, con una espressione di cura, di saggia e benevola complicità che, in cuor mio, ho sempre tradotto in: 1) goditi la vita, 2) non lavorare mai.                                                                                                    Il cinismo è una prassi di vita che fa del proprio corpo la testimonianza, la prova incarnata di una possibilità diversa di stare al mondo. È una vita filosoficamente scandalosa che si pensa e si dà a vedere con la carne e con le ossa (7), è, suggerisce Peter Sloterdijk, un materialismo dialettico e pure esistenzialista (cfr. Sloterdijk 1983, 39). Il nucleo è esistenzialista poiché il discorso di verità su di sé procede su un piano puramente esperienziale e per sottrazione di tutte le sovrastrutture (le penne del pollo) che ci hanno allontanato dalla natura; ed è materialista perché questo scavo nel profondo restituisce una forma di vita veramente altra, e una vita altra è sempre una vita di verità (8). È una vita da militante che agisce sulla sfera pubblica imponendo con la scandalosa nudità animale la sfida all’arroganza idealista (9). In questo Foucault, che mostra aperta simpatia per i cinici, intravede una matrice antagonista, una linea di fuga, la resistenza al potere. È chiara l’affermazione della priorità del soggetto sul dispositivo e sull’ordine gerarchico. Un re svergognato e della derisione, su cui insiste Sloterdjik in un libro giovanile e vibrante, che curiosamente esce nel 1984 esattamente durante il corso di Foucault, e che punta molto sull’aspetto drammaturgico, ironico, satirico, performativo dei cinici: la teoria ‘bassa’ fa alleanze con l’umorismo, la satira e la povertà. Il cinico è «il primo rappresentante nella tradizione resistenzial-satirica che fonda una sorta d’illuminismo rusticano» (Sloterdijk 1983, 42) (10). Come Foucault, anche Sloterdijk individua nei cinici una nuova concezione della verità che non è più sostenuta da uno strumentario teorico alto, come quello di Platone che taglia fuori la materialità del corpo e rende tutto astratto come la ‘tavolinità’: con i cinici «una variante sovversiva di teoria bassa faceva la sua apparizione portando all’estremo la pantomima grottesca della propria corporalità tradotta in prassi» (Sloterdijk 1983, 40) (11).  Non disquisiscono a lungo e con l’acutezza del grande filosofo, i cinici trovano ed espongono con sfrontatezza i propri argomenti nell’animalità del corpo e nelle sue posture, con una performatività esuberante, inaugurando in tal modo un «materialismo pantomimico» (Sloterdijk 1983, 42). Se la teoria alta si rivolge alle idee in cielo, la teoria bassa «stringe un patto con la miseria e con la satira» (Sloterdijk 1983, 41).                                                                        La filosofia canina è semplice, è una filosofia della natura e della ragione che osserva il comportamento degli animali per carpire il segreto di una vita saggia e di godimento; ma i cinici non hanno interesse per tutti gli animali, solo per i cani randagi che vivono nelle periferie delle città e lontano dal centro politico. Ma certo la forma di vita estrema dei cinici non è in nessun modo il ritorno alla condizione animale come quella intravista da Alexandre Kojève interpretando la fenomenologia di Hegel. È vero che il fenomeno piuttosto diffuso dei cinici coincide con la crisi della democrazia e l’avanzare della tirannia, e dunque espressione in qualche misura di un ripiegamento del soggetto su di sé, e di un sentimento diffuso di sfiducia nei confronti delle istituzioni democratiche, però nel cinismo antico non c’è la fine dell’Azione negatrice, qui al contrario c’è una performatività incontenibile che sputa sul pubblico ciò che è privato. Che sputa su Napoleone per le strade di Jena. È una forma di vita tipicamente cittadina, un cinico campagnolo non esiste, perché questa espoliazione di ogni bene e rifiuto di tutte le norme sociali imposte vuol dire prima di tutto rifiuto delle leggi dello Stato, rifiuto delle religioni, della famiglia, della proprietà privata, e logicamente il rifiuto ha senso lì dove l’egemonia normata è manifesta. Il ritorno alla natura dei cinici, il processo decostruttivo, di espoliazione, di eliminazione del superfluo non è un ritorno all’armonia degli elementi. Al contrario l’atteggiamento cinico è intriso di negatività, che è l’opposto di passività, che rilancia sempre oltre la linea dell’ordinario, del già acquisito e degli estetismi consensuali: negatività è pensiero critico. Lo si vede bene nell’arte moderna a partire dal trionfo dell’arte borghese, con tutta la sua «mostruosa fame di negatività (non da ultimo perché in questo mistero pulsa ciò che è vivo). Negativismi liberatori hanno più volte spezzato la dipendenza da stilizzazioni armonizzanti» (Sloterdijk 1983, 50-51) (12).

La figura 2 documenta una performance eseguita nel 2016 all’Università La Sapienza (Gallo, Storini 2018, 140). Il titolo è Smercio di monete false: in atteggiamento sospetto spaccio monete false da 20 euro. Benché le banconote siano realmente false l’attenzione non va posta sulla fattura della valuta ma sull’illegalità del gesto: è stato commesso un illecito secondo le leggi vigenti. «La sua aspirazione nella vita era di fare quello che aveva fatto suo padre: sfregiare le monete, ma su scala molto più larga. Avrebbe sfregiato tutte le monete correnti coniate con le immagini di generali e di re; le cose coniate, come onore e saggezza, felicità e ricchezza; tutte erano vile metallo con bugiarde iscrizioni» (Russell 1945, 237).                                Smercio di monete false si riferisce all’aneddoto che riporta Laerzio nelle notizie biografiche di Diogene (Diogene Laerzio 2005, 629): non si sa bene cosa accadde, alcuni raccontano che fu il padre di Diogene, altri dicono che fu proprio il filosofo canino a falsificare le monete legali; altri ancora sostengono che fu condotto da loschi operatori finanziari (loschi fin dalla nascita) a commettere la malversazione, confortato in questo dal responso di Apollo che per bocca dell’oracolo di Delfi lo indusse erroneamente a falsificare le monete: Parakharattein to nomisma. Si narra pure che ciò fu causato da un malinteso dovuto al molteplice significato di nomisma (moneta, legge, costume) e ciò che Apollo intendeva dire, ossia sovverti la tua moneta, fu da Diogene interpretato come falsifica la valuta. Vai a sapere come andarono le cose! Fu mandato in esilio e l’esilio lo fece filosofo (cfr. Diogene Laerzio 2005, 657, § 49). Non si sa bene, si sa per certo invece che il falsifica la moneta inteso come sovversione dei valori dominanti è, assieme al discorso parresiastico – che tiene assieme la cura del sé socratica e la vita di verità che è vita altra e figurazione di un mondo altro – il cardine della filosofia cinica.                                                                                      I cinici ci tengono molto al parallelismo del conosci te stesso, responso che Socrate ricevette dallo stesso Dio, con il falsifica la moneta di Diogene: è importante infatti capire che ‘altera la tua moneta’ è un principio di vita, è il principio fondamentale della filosofia cinica insieme al conosci te stesso. Ma se il conosci te stesso va ben oltre Diogene e Socrate, il parakharattein to nomisma è un principio solamente cinico. Questi due principi possono essere letti sia come conosci te stesso per capire che si deve cambiare effige alla propria moneta, oppure come altera la tua moneta per comprendere te stesso. In realtà, nota Foucault, il precetto fondamentale dei cinici è ‘altera la tua moneta’ ma questa rivalutazione della moneta passa necessariamente per la conoscenza di se stessi: «che sostituisce alla falsa moneta dell’opinione che si ha di se stessi, che gli altri hanno di voi, una vera moneta che è quella della conoscenza di sé» (Foucault 2009, 233). Ecco cosa sta a cuore a Foucault nell’ultimo corso del 1984, ecco cosa gli preme ribadire a quegli studenti: è possibile essere padroni della propria individuazione, è possibile plasmare la propria vita come fosse un’opera d’arte (13), «ci si può curare di se stessi come di una cosa reale, si può avere tra le mani la vera moneta della propria reale esistenza alla condizione di conoscere se stessi» (Foucault 2009, 233). Foucault sta proponendo a quei giovani studenti che lo ascolteranno per l’ultima volta, una verità su di sé come pratica sperimentale della propria soggettivazione, come pratica che consiste nel condurre in pienezza la propria esistenza e darle una forma esteticamente qualificata. È importante per i cinici rimarcare che il falsifica la moneta non è una svalutazione in senso negativo ma una filosofia e una pratica di vita che ristabilisce, operando una trasvalutazione radicale di sé e del mondo, il vero valore della moneta, della vita. «Altera la tua moneta» dunque non vuol dire cambiare metallo alla moneta, piuttosto si tratta di questo: «a partire da una moneta che porta una certa effige, cancellare questa effige e sostituirla con un’altra più rappresentativa, che permetterà a questo conio di circolare con il suo vero valore» (Foucault 2009, 220). Ciò vuol dire che spingendo fino al limite di rottura il tema della vera vita, ma senza arrivare a tanto, i cinici la capovolgono completamente di segno scegliendo per loro una forma di vita che in tutto e per tutto è differente dalla classica concezione di cosa sia una vita di verità: «riprendere la moneta, cambiarne l’effigie e assegnare in qualche modo al tema della vera vita i caratteri di una smorfia. Il cinismo come smorfia della vera vita» (Foucault 2009, 221) (14).                                                                                        La vita dell’artista che campa da cane e che dà scandalo è una vita impudica che si prende gioco della vera vita intesa classicamente, ma da cui prende le mosse. È una vita svergognata tirata al limite della sostenibilità, fino al ribaltamento in una vita altra. Ecco un altro punto fondamentale che caratterizza la vita cinica per il filosofo francese: la ‘vita altra’. Attraverso la vera vita, non dissimulata, si prospetta la vita altra, una vita differente dalla vita che conducono gli altri uomini in generale. Questo punto è molto importante sia per Foucault sia per Sloterdijk che vedono nella vita altra dei cinici una rottura con la linea maestra della metafisica occidentale in quanto è una vita differente, sovrana e di godimento, che va cercata e realizzata qui, in questo mondo e non nell’altro mondo. I cinici inaugurano, nonostante la rozzezza concettuale, la via materialista al godimento, alla pienezza di una vita altra e di un mondo realmente diverso privo di sopraffazioni (15). Questa differenziazione tra vita altra che si realizza nell’altro mondo e vita altra che si realizza in questo mondo sono le due linee entro cui la storia del pensiero filosofico occidentale procede. È solo a partire dalla scandalosa vita altra, testimone della possibilità di un mondo diverso, che è possibile tracciare una storia del cinismo che transita in ogni epoca e giunge fino a noi. Questo processo di soggettivazione che avviene scavando e plasmando la propria vita come fosse un oggetto artistico, nel senso suggerito da Foucault, è un argomento che ci riguarda e che riguarda molto da vicino l’arte.                                                                                                                              La passione per una vita piena, per una vita che si possiede pienamente, in godimento per sé e per gli altri, non sparisce ovviamente con i cinici antichi, la possiamo scorgere più o meno sotto traccia fino ai nostri tempi. Nei movimenti ereticali e in quelli rivoluzionari ad esempio, e poi in modo eclatante, ne parlano sia Foucault che Sloterdijk, nell’arte moderna a partire dalla fine del Settecento, significativamente coeva delle rivoluzioni borghesi del vecchio continente. L’arte è diventata cinica con la borghesia, sono i borghesi che rivendicano per sé una vita piena e autonoma, si pensi a fenomeni come il dandismo o lo stile di vita degli artisti bohémien, borghesi volontariamente impoveriti, non convenzionali, alcolizzati e oppiomani, auto-marginalizzati e marginalizzati: come gli antichi cinici, essi esaltavano il minore e il marginale, il negativo e il fuori testo, e lo stile di vita dell’artista non solo attestava l’autenticità dell’opera ma diventava l’opera in sé. Il ritorno alla natura, la riduzione al dato sensibile, il Romanticismo, lo Sturm und Drang e in generale le rumorose insofferenze contro l’accademismo di maniera e il rifiuto via via sempre più radicale delle norme, aprono la valanga del kinismo estetico (Sloterdijk 1983, 49) e l’arte diviene polemica, processuale. Nel mostrare una contrarietà severa a qualunque canone, l’arte cinica si pone in costante tensione verso il superamento di ogni limite, contro ogni forma di arte acquisita. È questo il cinismo dell’arte. È negatività operosa in ogni caso. Marcel Duchamp, splendido esemplare di anartista cinico, dipinge il suo ultimo quadro TU m’ nel 1918, poi non toccherà più pennello, ma aveva già fatto la Fontana un anno prima e nel ’21 divenne Rrose Sèlavy; poi dice che il lavoro lo stanca e che «non c’è il tempo necessario per fare un buon lavoro» (Lazzarato 2014, 22-23) (16). Nel 1915 Kazimir Malevic avvia l’azzeramento della pittura con il primo monocromo e nel ‘19 con il quadro Bianco su Bianco smette addirittura di occuparsi di arte, dice che trova più soddisfazione a far di conto con la penna. L’arte cinica ha finito col mangiare se stessa e ciò che rimane, fatte fuori le opere, sono delle atmosfere, delle posture, delle relazioni, corpi che inscrivono su di sé le coordinate di una intellegibilità residualmente artistica. È un’arte, tornando a Foucault, antiplatonica, un’arte cioè che scava, che mette a nudo, che cerca il minore, che rovista nello sporco. «Antiplatonismo: l’arte come luogo di irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza» (Foucault 2009, 185). Melville, Artaud, Beckett, Perec, Acconci. Ma Foucault oltre l’antiplatonismo dell’arte moderna riscontra anche un carattere antiaristotelico per quella frenesia al superamento di ogni limite appena acquisito; rifiutando così la serie e l’accumulo non c’è cultura, è un’arte controculturale: «bisogna contrapporre, al consenso della cultura, il coraggio dell’arte nella sua barbara verità. L’arte moderna è il cinismo nella cultura, è il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa» (Foucault 2009, 185). Questa idea di pensare se stessi nella forma di un’opera d’arte non è di certo immune da critiche, in molti hanno frainteso la ‘vita da plasmare’ come un eccesso di estetismo nella riformulazione della cura del sé, traducendo erroneamente l’ingiunzione di Foucault come se si trattasse realmente di un oggetto artistico posto fuori da sé, trascurando totalmente che il soggetto per Foucault semplicemente non esiste e che egli parla dell’estetica dell’esistenza e della vita come opera d’arte sempre in un contesto discorsivo di eticaAppare chiaro che Foucault sia affascinato dall’idea di un bios come la materia della propria sperimentazione, e questo interesse si intreccia «con l’idea che l’etica possa essere una struttura determinante dell’esistenza, senza alcuna relazione né con il giuridico in quanto tale, né con un sistema autoritario, e nemmeno con una struttura disciplinare» (Dreyfus, Rabinow 1987, 308).                                                       Era il 1984, e sebbene fossero già chiari il progetto e le conseguenze catastrofiche dell’ultrà liberista non era ancora immaginabile come le tecnologie, soprattutto informatiche, tradendo clamorosamente le aspettative di liberazione dalla schiavitù del lavoro, abbiano potuto accelerare, intensificare e determinare il processo di cattura e di assoggettamento al macchinico capitalista, era ancora possibile discernere, come ha fatto Foucault, una biopolitica che è controllo e assoggettamento, e una biopolitica positiva che è riferita alla potenza del soggetto che liberamente sceglie la propria forma di vita. Ma oggi credo, in verità, che l’invito di Foucault a trasformarsi in soggetto estetico in funzione antisistema sia ingenuo e forse a rischio di potere dissuadente, visto che proprio l’estetica e il soggetto estetico è oggi il motore dell’economia e della determinazione dei poteri politici. Ciò che manca oggi alla strategia di salvezza di Foucault è in qualche misura ciò che è mancato all’analisi dei situazionisti, di cui curiosamente Foucault non parla, e cioè che il capitalismo odierno non ha più bisogno che lo spettacolo medi i rapporti tra le persone, come scriveva Guy Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo nel 1988, perché in realtà oggi non c’è più nulla che medi le relazioni, nulla ormai si frappone tra il soggetto e il capitale.

(1)      Personaggio della Peste di Camus

(2)     Cfr. anche Cortesi Bosco 2007: «[…] occorre tener presente che nel Rinascimento sull’identità di Diogene detto il Cinico si faceva non poca confusione, se del filosofo originario di Sinope vissuto nel IV secolo a. C. si poteva far tutt’uno con Diogene di Apollonia, un fisico della scuola ionica vissuto un secolo prima».

(3)   «Quanto alla presenza del dodecaedro nel Diogene, la scarsa attenzione prestatagli non può non sorprendere. Nessuno studioso sembra aver rilevato sino ad oggi la sua derivazione dalle tavole, tratte da disegni di Leonardo, del Compendio de la divina proportione di Luca Pacioli, pubblicato a Venezia nel 1509, dalla figura del dodecaedro ‘piano solido’ con ombre a chiaroscuro […]: ‘La forma del 12 basi pentagone [Platone] atribuì al cielo sì commo a quello che è receptaculo de tutte le cose. Questo duoedecedron el simile fia receptaculo e albergo de tutti gli altri 4 corpi regulari commo apare in le loro inscriptioni uno in l’altro’ (Divina proportione, Venezia 1509, cap. V, Del condecente titulo del presente tractato, f. 16r.)» (Cortesi Bosco 2007).

(4)  «Platone se ne sta al buio in un’aula della sua Accademia, Diogene nella luce del suo semplice esser-ci. Il nominalista Diogene sostituisce la “dottrina platonica della verità” con l’a-letheia, il non-nascondimento dello sguardo ingenuo, originario, sull’uccello spennato» (Brandt 2000, 181).

(5)   Obbedienza cadaverica. Il nazista Eichmann usa il termine Kadavergehorsam per descrive lo stato di ‘cieca obbedienza’ del popolo del terzo Reich alla Legge di Hitler (cfr. Arendt 1963, 142-144).

(6)     Cfr. Diogene Laerzio 2005, 619/13: «Antistene, soprannominato “Vero-cane” fu il maestro di Diogene di Sinope detto il Cane, il più famoso tra i filosofi cinici».

(7)  «Con i sofisti e i materialisti teorici Socrate sa benissimo come fare basta riuscire ad attirarli in una conversazione… Ma con Diogene non ce la fanno ne Socrate ne Platone: il filosofo Kinico, infatti, parla con loro “anche altrimenti”, in un dialogo fatto di carne e ossa» (Sloterdijk 1983, 49).

(8)     «[Il cinismo] ha sollevato una questione molto seria, o piuttosto, mi sembra, ha dato il suo taglio al tema della vita filosofica ponendo la seguente domanda: la vita, per essere veramente vita di verità, non deve forse essere una vita altra, una vita radicalmente e paradossalmente altra? Radicalmente altra: cioè di rottura totale, da tutti i punti di vista, con le tradizionali forme di esistenza, con l’esistenza filosofica abitualmente accettata dai filosofi, con le loro abitudini, con le loro convenzioni» (Foucault 2009, 236).

(9)    «Ma un materialismo dotato di spirito non può accontentarsi di vuote formule e di conseguenza passa ad argomenti materiali, riabilitando il corpo. Nell’accademia troneggia l’idea. (E la discreta urina sgoccia in latrina.) Ma: urina nell’accademia! Ecco la tensione dialettica par excellence! L’arte di pisciar contro l’idealistico vento» (Sloterdijk 1983, 45).

(10)   «Inventa il dialogo non-platonico. Apollo, dio dell’illuminazione, vi mostra la sua altra faccia (sfuggita a Nietzsche), quella di satira pensante, squartatore e commediante. I dardi della verità, letali, piovono proprio dove le menzogne vanno cullandosi nella sicurezza di protezioni altolocate» (Sloterdijk 1983, 41).

(11)     «La schiera delle concezioni di verità si scinde qui in due tronconi: una falange ispirata a teoresi discorsiva in grande stile e una masnada di attaccabrighe satirico-letterari. Con Diogene, nella filosofia europea inizia la resistenza all’imbroglio del discorso» (Sloterdijk 1983, 40).

(12)    «La modernità estetica ci consegna un’arte di chicche avvelenate; la si può magari contemplare con fredda eccitazione specialistica, ma mai accoglierla senza rischio di malumori. S’ingurgita, con le arti moderne, una tal massa di negatività da rendere del tutto evanescente l’idea di godimento artistico» (Sloterdijk 1983, 50-51).

(13)      In realtà Foucault non dice esattamente questo nell’ultimo corso del 1984. In Il coraggio della verità dice solo che è interessato a comprendere come il bios, la cura del sé, si sia intrecciato con una estetica qualificata dell’esistenza. È altrove, in Sulla genealogia dell’etica, contestando che l’arte sia diventata un’attività specialistica in relazione solo con le opere e non con gli individui, che si domanda: «perché la vita di ogni individuo non potrebbe essere un’opera d’arte? Perché una lampada o una casa sono oggetti d’arte e non lo è la nostra vita?» (Dreyfus, Rabinow 1987, 309).

(14)     «Si tratta molto più di una sorta di prolungamento carnevalesco del tema della vera vita che di una rottura dei valori che a essa vengono attribuiti dalla filosofia classica» (Foucault 2009, 221).

(15)    «La filosofia greca, a partire da Socrate, ha in fondo sollevato, con e per il platonismo, la questione dell’altro mondo. Ma ha posto anche, a partire da Socrate o dal modello socratico al quale si riferiva il cinismo, un’altra questione. La questione non dell’altro mondo ma della vita altra» (Foucault 2009, 236).

(16)    «Non potevo lavorare più di due ore al giorno. […] ancora oggi non posso lavorare più di due ore al giorno. È veramente impressionante lavorare tutti i giorni» (cit. in Lazzarato 2014, 22-23).

Riferimenti bibliografici

Arendt H.,1963: La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2001.

Brandt R., 2000: Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, tr. it. di M.G. Franch e D. Gorreta, Milano, Bruno, Mondadori, 2003.

Cortesi Bosco F., 2007: Il “Diogene” del Parmigianino. Alchimia e geometria, «MATEpristem» (http://matematica.unibocconi.it/articoli/il-diogene-del-parmigianino-alchimia-e-geometria).

Debord G., 1988: Commentari alla società dello spettacolo, Bologna, Fausto Lupetti Editore 2012.

Deleuze G., 1983: L’immagine-movimento. Cinema 1, tr. it. di J-P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 2010.

Diogene Laerzio, 2005: Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano

Dreyfus H.L., Rabinow P., 1987: Michel Foucault, sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in Dreyfus H.L., Rabinow P. (a cura di), La ricerca di Michel Foucault, Firenze, La Casa Usher 2010.

Foucault M, 2009: Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), tr. it. di M. Galzigna, Milano, Feltrinelli, 2011.

Gallo F., Storini M.C., (eds.), 2018: Antico e contemporaneo. Sguardi, prospettive, riflessioni interdisciplinari alla fine della modernità, Atti della Giornata di studi e catalogo della mostra Confluenze (Sapienza maggio 2016), Roma, Sapienza University Press.

Lazzarato M., 2014: Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, Temporale, Milano.

Leroi-Gourhan A., 1965: Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio, vol. 1, Milano, Mimesis, 2018.

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Spinoza B., 1988: Etica dimostrata con metodo geometrico, tr. it. di E. Giancotti, Roma, Editori Riuniti, 2000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A un tale che gli assestò un colpo con una stanga e poi gli disse: “Sta’ attento!”, egli, dopo averlo colpito con il suo bastone, disse: “Sta’ attento!”

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, 673).

 

«L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» (Spinoza 2000, Proposizione VII, L. 2, 127), la sostanza pensante e quella estesa del corpo sono la stessa ciò che cambia sono gli attributi che solamente si danno a vedere in forme diverse, «così anche un modo dell’estensione e l’idea di quel modo sono una sola e stessa cosa, ma espressa in due modi» (Spinoza 2000, scolio della proposizione VII, L. 2, 128).

Sono in spiaggia, esposto alla noia guardo i bagnanti sotto la calura agostana. Sono in un caffè, dalla vetrina guardo la strada alla maniera (…)