Concerto transumante per flatus vocis

Concerto transumante per flatus vocis
2005 admin
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Concerto transumante per flatus vocis

 

La questione della facoltà o potenza di linguaggio è centrale in Concerto transumante per flatus vocis che ha preso vita con il seminario che Folci ha tenuto presso la Fondazione Baruchello nel 2005. In una prima fase del seminario sono state indagate le forme individuali e collettive in cui la parola prova ad uscire dai binari della comunicazione strumentale e si è visto come riflettere sul linguaggio oggi, voglia dire pensare anche alla questione della forza-lavoro (potenza e facoltà pura) con cui il linguaggio tende a coincidere. Sono state ricercate le forme di ‘fiato’ che prima di essere discorso sono voce e si è riflettuto sulla dimensione rituale del performativo assoluto. Si è esplorata quella dimensione in cui il corpo persiste o insiste e supera il linguaggio sovrano. Il linguaggio come fiato è pura potenza di dire: la potenza è un universo di segni involontari che resistono all’organizzazione – attualizzazione nel linguaggio. La ricerca dei caratteri involontari e prelinguistici è un fondamento del lavoro di Folci che nel Concerto transumante ha individuato un altro personaggio peculiare dal quale far derivare la sua operazione stratificata: Fabio, un lavoratore interinale in un call center della periferia milanese, che narra di un verso strano che è costretto a fare per non essere capito da chi nell’ufficio è addetto a controllare che la voce sia usata ai soli fini di vendita previsti nel contratto. Fabio dice “ Sopravviviamo inventando il rumore per  uscire a bere il caffè che è questo qua: “nghe”, che non è altro che l’imitazione brutta della chiusura di una porta della metropolitana e quando si sente questo rumore i diretti interessati si girano e guardano, e con gli sguardi proseguiamo nella conversazione: lo sguardo dice: ‘esci a bere il caffè’,  se tu fai così [Fabio fa un espressione con il volto] l’altro capisce che non puoi, è tutto un linguaggio muto, muto o di versi”. Dice Folci: “ È in questo contesto lavorativo opprimente che nasce il verso di Fabio, un ‘nghe’ molto simile al verso di un’anatra, un linguaggio animalesco che racconta dell’assurdità carceraria di un call center in cui è vietato parlare tra colleghi. Nell’anatrare di Fabio è stata scorta una “voce vuota” che ci parla a volerla ascoltare attentamente, di resistenza alla tirannia della produzione e della voglia di riprendersi la vita. […] Il ‘nghè’ di Fabio è la voce indifferenziata dell’animale prima ancora che il linguaggio si articoli in parole, è suono privo di contenuto, puro fondo biologico. È il ‘rumore bianco’ del respiro, del flusso sanguigno, del tendersi dei tendini, della bile, una voce indicibile che si pone sul versante  abissale di ciò che è ‘animale’ dell’individuo ‘umano’.”  La comunicazione reale, quella tra le persone relegate lunghe ore alle sedie degli uffici del call center, si strappa alla logica di mercato a cui la voce è sottomessa, attraverso un comunicare relazionale che per esprimersi non ha più bisogno di contenuti specifici, ma della sola emissione di suono.  Dopo la fase analitica, il seminario è entrato in una fase operativa strutturata in tre momenti: in primo luogo il gruppo si è fatto invitare nelle case private di alcune persone, amici e conoscenti, che a loro volta hanno coinvolto altre persone invitandole a partecipare alla presentazione e alla discussione del progetto e dunque alle prove del concerto stesso. A queste persone è stato spiegato il progetto: dapprima si svuota completamente la casa dell’artista i cui oggetti personali e i mobili vengono posti nei porta pacchi delle macchine degli ospiti- concertisti, infatti la fase centrale del progetto consiste nel concerto che intitola l’opera.  Una volta entrati tutti nella casa svuotata, ha avuto inizio il concerto di fiati in cui ogni partecipante aveva il solo compito di non proferire parola. Il concerto è terminato una volta esaurita la presenza delle persone, che dopo una quarantina di minuti circa, poco a poco hanno abbandonato l’ambiente. In un testo dove l’artista parla del suo lavoro dice:  “C’è una casa. È una casa abitata, con tutti i suoi oggetti, i mobili, i libri, gli elettrodomestici, gli album fotografici di famiglia, uno spazio del sé sedimentato da strati di memoria e carico di ricordi affettivi. È una casa che conserva i segni del passaggio del tempo, un calendario fatto di simboli indelebili. Si tratta, ora, di pensare la sua nudità, di svuotarla di tutto, di “espropriarla di ogni suo ‘proprio” per poi lasciarla nuovamente occupare da una moltitudine di persone come fosse una mandria animale. Una casa svuotata per meglio disporsi all’ascolto dell’alterità originaria, per ospitare e lasciarsi contaminare da un gregge di uomini e donne che pian piano si accalca e si cementa, nel contatto corporale, in una dimensione bestiale, primordiale e sacrale. Un vero trasloco, una carovana di uomini e cose, una transumanza animale, una traduzione di luoghi: ognuno porta e lascia qualcosa, ognuno traduce e tradisce qualcosa”.  Con il Concerto transumante Folci si può dire  abbia ‘fatto un’immagine’ come un ritornello, dissolvendo ogni riferimento a dei ricordi personali e a un senso razionale, riducendo le persone a solo fiato e denudandole dei vestiti di parole con cui scoprire e coprire il corpo. Il linguaggio detronizzato ha messo a nudo il corpo attraverso il fiato e la vicinanza di gregge  a cui le persone si sono sottoposte. Privata la stanza di ogni riferimento personale le persone si sono ritrovate in uno stato originario di promiscuità del corpo e di relazione animale e hanno messo in concerto il loro respiro. Il genere di immagine creata con Concerto transumante concerne il processo e non una rappresentazione, qualcosa che è destinato a dissolversi e vale per la sua: “tensione interna, la forza mobilitata per fare il vuoto, o aprire dei fori, sciogliere la morsa delle parole, asciugare il trasudamento delle voci, per liberarsi della memoria e della ragione, piccola immagine alogica, amnesica, quasi afasica, ora sospesa nel vuoto, ora fremente nell’aperto” . Folci ha contratto in un’immagine un paesaggio di situazioni che ruota attorno al verso di Fabio: vi è un paesaggio esteso di persone, luoghi  e relazioni in uno spazio delimitato, la casa dell’artista, una stanza quadrata, bianca e vuota, contenitore di una umanità che ha il solo ‘compito’ di ‘fiatare’.

 

Roma, 2005

 

testo tratto da: Marta Roberti, Lavorare parlando parlare lavorando. il linguaggio messo a lavoro nelle opere di Mauro Folci

 

“ Sopravviviamo inventando il rumore per uscire a bere il caffè che è questo qua: “nghe”, che non è altro che l’imitazione brutta della chiusura di una porta della metropolitana e quando si sente questo rumore i diretti interessati si girano e guardano, e con gli sguardi proseguiamo nella conversazione: lo sguardo dice: ‘esci a bere il caffè’, se tu fai così [Fabio fa un espressione con il volto] l’altro capisce che non puoi, è tutto un linguaggio muto, muto o di versi”. È in questo contesto lavorativo opprimente che nasce il verso di Fabio, un ‘nghe’ molto simile al verso di un’anatra, un linguaggio animalesco che racconta dell’assurdità […]

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