Vacanze

Vacanze
2017 mauro
In Works

Mauro Folci, Vacanze

Vacanze

In Abecedario (1) Gilles Deleuze racconta di quando, nel 1936 – lui ragazzo undicenne -, il governo di Blum impose le ferie pagate a tutti i lavoratori dipendenti, e di come la borghesia di destra e antisemita della Francia di allora fosse scandalizzata, oltre che seriamente preoccupata, di quella particolare misura sociale. Racconta di quando sulla spiaggia di Deauville, località dove la famiglia si trasferiva per le vacanze estive, giunse a disturbare la quiete dei pochi, la folla dei proletari. L’odio di classe dei padroni e dei borghesi che questa legge sulle ferie retribuite liberò, fu di tale intensità che costrinse molti di loro a rinunciare al mare di Deauville. Deleuze ricorda, con un sorriso di soddisfazione, come la conquista delle ferie pagate sia stata una delle vittorie più importanti della storia del movimento proletario e per inverso come questa abbia letteralmente traumatizzato i padroni por molti anni a venire. Più di quanto avvenne negli anni 70.

Le ferie è un periodo di tempo che è di vacanza dal tempo del lavoro, e dunque capite bene perché i padroni fossero così preoccupati: è tempo liberato per la cura del sé e questo rappresenta, da sempre, un serio pericolo per la macchina che trasforma il tempo in capitale. È una minaccia in quanto libera cariche desideranti che sono potenziali forme diverse di vita: una “vita altra” che fa dell’essere vacante il principio di un’azione destituente nei confronti dei poteri costituiti.                                                      Essere vacanti è la potenza che definisce la natura umana, è ciò che delinea il confine tra l’essere dell’animale e l’essere dell’umano, per dirla con Heidegger la vacanza è l’aperto. L’essere vacante è la formula con cui Bartleby lo scrivano conduce a termine l’esperimento di abitare una pura potenza. È l’approdo che tenta di guadagnare Beckett esaurendo e mandando in vacanza ogni forma di linguaggio.                                        Vacante è il fosco, è colui che non ha qualità ne competenze. Vacante è Dino Campana “questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me”(2). Vacante è essere aperto a tutto: – un signore dice all’altro “lei suona abbastanza male” l’altro risponde “ si suono male ma non voglio suonare bene” allora il primo risponde “ ah se è così allora va tutto bene”-.(3) Vacante è ciò che si mantiene nell’indeterminato, è la condizione di ogni divenire, è una potenza così come lo è la facoltà di linguaggio, così come lo è la forza lavoro.                                                                                                       Paolo Virno ha riabilitato questo concetto di forza lavoro che dalla fine degli anni ‘70 era caduto nel dimenticatoio, e lo ha fatto a ragione che oggi ciò che si acquista al mercato del lavoro è esattamente ciò che Marx intendeva per forza lavoro: un concentrato di forza fisica e di forza intellettuale trattenuta nei corpi. La forza lavoro è l’insieme delle facoltà che possiede il vivente umano, è per natura propria una potenza indeterminata, e sappiamo che una potenza che si dice tale è sempre una potenza-di-non passare all’atto. La potenza, dunque, è qualcosa che non esiste, che non c’è. Ora dobbiamo riconoscere che qui succede qualcosa di veramente strano, di paradossale, perché se la forza lavoro è la potenza, ossia qualcosa che non è in atto, qualcosa che non è, come si fa ad acquistarla al mercato del lavoro? La risposta che da Virno non è multipla: occorre acquistare l’intero corpo in quanto concentrato che tiene a sé l’insieme della forza fisica e l’insieme della forza intellettuale. Un altro nome per dire forza lavoro, catturata nel processo lavorativo, è Intelletto generale, che è parimenti un sapere non specifico ma generico, che è intelligenza senza padroni diffusa e orizzontale.  Un sapere generico che ci tiene insieme. Bella questa immagine, vero? peccato che nel mondo attuale il vacante, il mancante, il precario, il flessibile, il generico del vivente umano viene acquistato e messo a profitto dalla macchina che accumula capitale.                                                                Ma c’è dell’altro: l’arte, in questa congiuntura storica che vede il trionfo dell’estetica nell’economia e nella politica, è l’incarnazione (non la formalizzazione) di quel general intellect, che oggi viene cooptato e sussunto dal sistema capitalistico nella forma della produzione, della valorizzazione e della riproducibilità di soggettività e comunità naturalmente capitaliste. Non è tanto o solo l’ estetizzazione integrale della politica e dell’economia, che sarebbe ancora pubblicistica, quanto che il processo di estetizzazione di ogni spazio della vita lavorativa come di quella associativa abbia  finito col modellare il soggetto come fosse un oggetto estetico.                               Questa espressione che ora ho usato in senso negativo, mi da occasione per entrare nel merito del mio intervento che verte essenzialmente su due forme di esodo potenti: la prima è quella che indica Michel Foucault nell’esortazione a sperimentare (plasmare, condurre) la propria vita come fosse un’opera d’arte, la seconda è di Giorgio Agamben con una inoperosità attiva, cioè destituente.                                                                                                I testi a cui faccio riferimento sono Il coraggio della verità, trascrizione dell’ultimo corso di Foucault (1984) (4), e l’uso dei corpi, di Agamben (2014) (5).                                                                                                              Tutta la seconda metà del corso Foucault la spende per parlare della scandalosa forma di vita dei cinici antichi, per insistere sulla questione che lo ha occupato negli ultimi anni – le relazioni tra soggetto e verità – e per tornare sulle connessioni inestricabili tra la pratica della cura del sé e una qualificata estetica dell’esistenza. Si parla cioè di una pratica di verità su di sé che consiste nel condurre la propria vita come fosse un’opera d’arte, o meglio sperimentare con la propria forma di vita così come si sperimenta in arte. Altrove, in Sulla genealogia dell’etica, lamentando che l’arte sia diventata un’attività specialistica in relazione solo con le opere e non con gli individui, Foucault si domanda: “Perché la vita di ogni individuo non potrebbe essere un’opera d’arte? Perché una lampada o una casa sono oggetti d’arte e non lo è la nostra vita?” (6).                                                          Il cardine della filosofia cinica è il singolare uso della parresia, ossia del discorso franco detto in modo polemico, incurante nella forma quanto più penetrante nella verità. Un dire il vero su se stessi e contro se stessi, contro gli altri e per gli altri. La cura del sé dei cinici è essenzialmente un dire il vero su se stessi, una verità che scava nel profondo del sé con coraggioso e che, per coerente conseguenza, assume forme di vita radicali: una vita altra è sempre una vita di verità. Per analizzare la tipicità della parresia cinica Foucault inizia col definire cosa è una vita di verità a partire dai 4 principi per cui nella filosofia greca una cosa possa dirsi vera e poi, ponendo forte l’accento sul fatto che sono definizioni che si applicano a delle forme di vita, li usa per determinare i principi che fondano la vita altra dei cinici.

1/ Vita non dissimulata: estremizzata in una forma di vita scandalosa, vivono seminudi e mangiano, dormono, fanno i bisogni fisiologici e si masturbano in strada.

2/ Vita senza commistioni: una vita autarchica che è sufficiente a sé stessa, con la pratica della povertà e il disonore.

3/ Vita diritta: una vita conforme alla natura e alla ragione, una forma di vita naturale fino all’animalità. Il cane (randagio e di città) è il modello.

4/ Vita sovrana: è il senso ultimo della filosofia di vita del cinico. Il cinico è la sovranità in sé, è un re-anti re, il che vuol dire l’affermazione della supremazia del soggetto sulle norme.

La parresia coraggiosa che i cinici usano per modellare la propria vita, in ragione di un ritorno alla  natura, la rivolgono anche agli altri e consiste in questo: “riuscire a fare si che gli uomini condannino, respingano, disprezzino, insultino la manifestazione stessa di ciò che essi ammettono, o pretendono di ammettere, sul terreno dei principi” (7). Vale a dire far incazzare gli altri sbattendogli in faccia la contraddizione stridente tra ciò che loro stessi accettano e sostengono sul piano delle idee (ritorno alla natura) e il modo di condurre la propria vita che racconta un’altra storia.      I cinici dicono la verità con il discorso e dicono la verità mostrando conseguentemente la loro forma di vita: dicono la verità anche attraverso il corpo. La parresia dei cinici è un dire il vero con coraggio, e tutti sanno che la verità detta con franchezza a volte può risultare sconveniente, si può offendere l’amico o l’amante, ma si può anche perdere la testa se l’altro del gioco parresiastico è un re, un tiranno o un potente qualunque.        Sappiamo bene che si rischia la vita a dire il vero,  ma la cosa interessante che Foucault puntualizza con energia, è che nei cinici questo rischio scaturisce non tanto dal discorso dissacratorio quanto invece dallo scandalo che la loro vita suscita. Ecco ciò che va tenuto a mente occupandoci dei cinici, dice Foucault: “si rischia la propria vita non solo dicendo semplicemente la verità, non solo per dire la verità, ma anche per il modo in cui si vive” (8). Questo dire il vero con coraggio è insieme critica di sé e critica al potere: inoltre si rapporta con il bios, ossia, dice il vero attraverso il proprio comportamento, la propria postura, la propria estetica di vita. Questo bios è l’accezione positiva di ciò che chiamiamo biopolitica, intesa cioè come potenza del soggetto.                                                                              “Il coraggio di dire il vero quando si tratta di scoprire l’anima. Il coraggio di dire il vero quando si tratta di dare alla propria vita una forma e uno stile” (9). Queste sono le due forme della cura del sé; e ciò che interessa Foucault è come, a partire da questa pratica parresiastica il bios, la vita si sia trasformata in oggetto estetico, come il coraggio di dire il vero si sia intrecciato con “il principio dell’esistenza come una opera daplasmare”(10)  Il cinismo più che una filosofia è una prassi di vita che testimonia una possibilità diversa di stare al mondo, ed è solo a partire da questa testimonianza di vita scandalosa – eretica, rivoluzionaria, anarchica – che è possibile una genealogia del cinismo che attraversando tutte le epoche giunge fino a noi. La questione del cinismo diviene molto importante ad esempio nell’arte moderna a partire dalla fine del ‘700, basta pensare al lungo fenomeno della Bohème in cui la forma di vita dell’artista attesta non solo la veridicità dell’opera ma diviene essa stessa opera d’arte:  l’artista non crea opere ma plasma se stesso nella forma di un’opera d’arte. Nello Sturm und Drang della prima arte borghese, ci dice Peter Sloterdijk, si apre la valanga del kinismo estetico e l’arte diviene polemica, processuale, mostra insofferenza a qualunque norma, si pone in costante tensione verso il superamento di ogni limite, contro ogni forma di arte acquisita. È questo il cinismo dell’arte. Sloterdijk parla di un materialismo esistenzialista (11) che esprime con la carne e con le ossa il possesso della propria sovranità: la vita cinica è una vita di godimento che dispone pienamente della propria soggettivazione, che sperimenta il proprio essere come fosse un’opera d’arte. Questa idea di pensare sé stessi nella forma di un’opera d’arte è stata criticata da alcuni che hanno inteso, sbagliando totalmente, la “vita da plasmare” come si trattasse realmente di una scultura, come di un oggetto posto fuori da sé, quando invece è più che evidente che il soggetto di Foucault è sempre in divenire e che un soggetto vero e proprio, ossia costituito, non esiste. Questo è un punto importante su cui Agamben si sofferma a lungo in L’uso dei corpi ribadendo che per Foucault “l’estetica dell’esistenza” e “la vita come opera d’arte” sono sempre in un contesto discorsivo di etica. (12)                                                                                            Ora seguiamo Agamben sulla questione del soggetto costituito e del soggetto costituente e le contraddizioni che rintraccia quando il soggetto che liberamente va costituendosi sotto l’opera della cura del sé entra, nella prassi, in relazioni di poteri per cui “la soggettivazione di una certa forma di vita, è, nella stessa misura, l’assoggettamento in una relazione di potere”(13). lo so, è difficile da accettare ma questo è ciò che Foucault chiama la microfisica dei poteri. Insomma il soggetto libero entra comunque nella dialettica soggettivazione / assoggettamento e da questa trappola Agamben cerca di uscirne ipotizzando una terza via: una forma di vita che si sottragga alla polarità zoe / bios che fa della biopolitica, in ogni caso, il dispositivo di controllo della vita in quanto tale, della nuda vita; a partire da questo “terzo” Agamben sembra suggerire una via di esodo nel possibile che si apre nella “inoperosità”, nella sottrazione attivamente inoperosa: “Occorrerà, allora, innanzitutto, neutralizzare il dispositivo bipolare Zoe / bios. (…) si tratta, cioè, di rendere inoperosi tanto il bios che la zoe, perché la forma-di-vita possa apparire come tertium che diventerà pensabile soltanto a partire da questa inoperosità, da questo coincidere – cioè cadere insieme – di bios e zoe”. (14)                                                                                Non più la dialettica bios / zoe  perché ciò non riproduce altro che uno stato d’eccezione, quello in cui la posta in gioco della politica è la nuda vita. L’Occidente politico si struttura su questa forma di esclusione inclusiva, giocando sulla nuda vita il differenziale che definisce di volta in volta che cos’è umano e cosa no: “La struttura originaria della politica occidentale consiste in una ex-ceptio, in una esclusione inclusiva della vita umana nella forma della nuda vita. Si rifletta sulla particolarità di questa operazione: la vita non è in se stessa politica – per questo essa deve essere esclusa dalla città – e, tuttavia, è proprio l’exceptio, l’esclusione-inclusione di questo impolitico che fonda lo spazio della politica”.(15) La disattivazione di questo dispositivo uomo-non uomo darebbe a vedere quel vuoto, quella zona di indistinguibilità che si pone al confine tra l’animale e l’umano, da cui poter cogliere una vita inseparabile, né animale né umana: “il problema ontologico politico fondamentale è, oggi, non l’opera, ma l’inoperosità, non la ricerca affannosa e incessante di una nuova operatività, ma l’esibizione del vuoto incessante che la macchina della cultura occidentale custodisce al suo centro”.(16)                                                                                                          Lo stesso paradosso che il dispositivo logico dell’esclusione inclusiva crea lo troviamo nel dibattito, recentemente rinvigorito, su un potere costituente che non passi mai all’atto nella forma definitiva di un potere costituito, cosa in realtà difficile da sostenere visto che rimane evidentemente imprigionato nella dialettica costituente / costituito, che altro non è se non il ritornello che giustifica la violenza del potere, che sia già costituito o che vada a costituirsi. Sulla logica della terza linea Agamben propone un “potere destituente”. Questa idea di potere destituente che fa tutt’uno con l’essere inoperoso è tema frequentato nell’ambito della filosofia politica che ha riflettuto sul comunitario, come ha fatto ad esempio Nancy. Inoperosità e potenza destituente stanno insieme, rendono inattuale “una funzione, un potere” ma senza distruggerlo, liberando invece le potenzialità che ne permetteranno un uso diverso. Agamben sta pensando l’umano e il politico senza alcuna relazione tra loro, li pensa disgiunti per poter disattivare la macchina dell’esclusione inclusiva: “pensare l’umano e il politico come ciò che risulta dalla disconnessione di questi elementi e investigare non il mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della loro disgiunzione”. I due elementi (la zoe e il bios) così rimangono ben visibili ma non più compromessi, e ,“perciò stesso, ciò che era stato diviso da sé e catturato nell’eccezione, la vita, l’armonia, la potenza anarchica, appare ora nella sua forma libera e indelibata”.(17)                                                               Lo stato d’eccezione permanente, prodotto dalla dialettica zoe/bios, e la traccia di un possibile destituente  ci offrono degli strumenti di lettura ulteriori per capire se l’indicazione così “urgente” e precisa di Foucault,“condurre la propria vita come un’opera d’arte”, sia una strategia di salvezza ancora valida oggi, a distanza di 32 anni, sul piano individuale e spendibile su quello politico.

Il problema che ho voluto proporvi, in modo così parziale e superficiale, è in ultima analisi questo: quale strada seguire per un esodo potente e felice, capace cioè di sottrarsi alla cattura della macchina capitalista? È la via verso un potere costituente o verso un potere destituente? Si dovrà realizzare (ancora) un’opera sociale oppure salvare la società (come suggeriva Foucault) liberandola dai vincoli dell’operosità?

Mauro Folci

 

(1)     Gilles Deleuze, Abecedario,video intervista di Claire Parnet. Regia Pierre André Boutang. Derive Approdi 2005

(2)      Dino Campana, lettera a Sibilla Aleramo. In: Un po’ del mio sangue, Rizzoli 2007, p.264

(3)     Mauro Folci, Non ora. Non ancora, in questo libro e in Pigs, a cura di Escuela Moderna/Ateneo Libertario, Milieu,  2016. E’ un     motto di spirito di L. Wittgenstein che si trova in Conferenza sull’etica, in Lezioni e conversazioni. A  cura di M. Ranchetti, Adelphi 2005, p. 8.

(4)      Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli 2011

(5)      Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza 2014

(6)      H.L.Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in: La ricerca di Michel Foucault, Ed. La Casa Usher 2010, p. 309

(7)      Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli 2011, p. 125

(8)      Ivi, p. 226

(9)      Ivi, p. 159

(10)    Ivi, p. 161

(11)    Cfr. Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina 2013, p. 39: “questo primo, vero e proprio materialismo dialettico (che seppe essere anche un esistenzialismo).”

(12)    Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza 2014, p. 136

(13)    Ivi, p. 145

(14)    Ivi, p. 287

(15)    Ivi, p. 333

(16)    Ivi, p. 336

(17)    Ivi, p. 344-345

 


Vacanze è il titolo di una mostra curata da Anna Cestelli Guidi allo Spazio Auditorium Arte di Roma nel maggio del 2017. Le opere in  mostra sono quattro, più una performance che si svolge ai  tavoli del bar fuori dalla galleria:

1/ Zoe (video installazione 2017), la galleria è composta da due sale parallele, in quella di fondo, al buio e accessibile solo in minima parte, si vede in lontananza un orso che dorme (è l’orso che vive allo zoo di Roma ripreso in notturna), e ne ascoltiamo il respiro pesante e a tratti sembra che russi. È lontano da noi. l’immagine dell’orso è proiettata su un grande sacco di stoffa (riempito con abiti, coperte, lenzuoli…) che ne imita grossolanamente la postura. l’immagine che ne risulta è vibrante, incerta, sfocata. Lavoro di post produzione video, Marco Pucci. Di post produzione audio, Nicola Verità.

2/ Vacanze (2016), è una vecchia insegna luminosa (Buone Feste) recuperata da Mas (ex Magazzini del popolo) su cui è stata applicata una nuova insegna al neon con la scritta Vacanze. La prima di Vacanze è una installazione site specific realizzata all’ingresso di Mas, nel corso di una rassegna di arte curata da Artisti innocenti, per celebrare la chiusura degli storici  magazzini del popolo.

3/ Motti di spirito (2016/17), è una installazione composta da 8 numeri del fotoromanzo Motti di spirito. Solamente Non ora. Non ancora. è del 2016 e nasce conseguentemente ad una performance, con lo stesso titolo, presentata la prima volta a Genova nel 2013.

Per i dettagli si rimanda alle pagine dedicate.

4/ La fine della storia (video 2017), è un video girato all’interno della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, da cui è stato realizzato anche un numero speciale – La fine della storia – del fotoromanzo Motti di spirito. Con la partecipazione dei performers Luca Miti e Gianni Piacentini e con la collaborazione foto/video/audio di Francesca Gallo, Pasquale Polidori e Marco Santarelli.

5/ Mal Detto (performance 2017), un gruppo di 20 ‘bontemponi’ seduti ai tavoli del bar all’ora dell’aperitivo, si dedicano divertiti all’arte dello  sfottò.

La performance Mal detto si riferisce ad una forma di dire il vero tipicamente cinica per il carattere polemico che la caratterizza. lo sfottò è una modalità della parresia cinica. P. Sloterdijk in Critica della ragion cinica legge il fenomeno del cinismo come una sorta di pantomima grottesca dove il goliardico, la sfrontatezza, lo sfottò, l’irriverenza sono l’espressione della forma di vita cinica.

Ecco i 20 performers di Mal detto: Alberto Abruzzese, Claudio Giangiacomo, Massimo Mazzone, Luigi Battisti, Pasquale Polidori, Luca Miti, Rossana Barbaccia, Gianni Piacentini, Daniela Angelucci, Felice Cimatti, Carlo Bersani, Tommaso Giartosio, Claudia Tombini, Leonardo Carocci, Riccardo Marziali, Lorenzo Lustri, Lorenzo Labagnara, Matteo Cremonesi, Andrea  Aureli, Massimo Mattioli. le fotografie di Mal detto sono di Rita Mandolini.

 

 

 

 

 

 

Felice Cimatti, Esodo e divenire-animale

Esodo e divenire-animale

Felice Cimatti

Non si capisce un filosofo se non cercando di capire bene ciò che intende dimostrare, e in verità non dimostra, sul limite fra l’uomo e l’animale (Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, p. 157).

L’animale scappa. O meglio, non è tanto che l’animale scappa da qualcosa, come se scappasse da un pericolo, e cercasse rifugio in un luogo sicuro, nella sua tana, ad esempio. Questa è una rappresentazione umana dell’animale. In realtà l’animale è la fuga, è il fatto stesso del fuggire. L’animale scappa non da qualcosa, l’animale è lo scappare come tale. Un animale non scappa da un posto per andare in un altro posto. L’animale è lo scappare senza che ci sia alcun luogo da cui si scappa, né una meta da raggiungere. L’animale scappa, intransitivamente, così come la pioggia piove, o il sole riscalda.

Per questa ragione è così difficile pensare l’animale, perché per pensarlo dobbiamo metterlo da qualche parte, nella sua tana ad esempio, o nella savana, o nella barriera corallina. Ci viene sempre da pensare l’animale come qualcuno che sta da qualche parte – il suo “territorio” – da cui si allontana a malincuore, e dove vuole sempre tornare. Pensare vuol dire mettere ciò che si pensa in un luogo, in un concetto ad esempio, in definitiva metterlo dentro una parola. Perché la parola è una trappola, prefigura la gabbia, lo zoo, il documentario naturalistico, il museo di zoologia. In sostanza, prefigura la morte: “il fatto di vedersi dare il proprio nome […] coincide con il lasciarsi invadere dalla tristezza, […] o perlomeno da una specie di presentimento oscuro della tristezza. O meglio ancora, da un presentimento del lutto. Un lutto presentito perché, mi sembra che qui, come in ogni denominazione, abbiamo a che fare con l’annuncio di una morte futura accompagnata dalla sopravvivenza di uno spettro, quello della longevità di un nome che sopravvive a chi lo porta” (Derrida, L’animale che dunque sono, pp. 57-58).

Non è che il nome uccide, è che il nome fissa la fuga dell’animale in una posizione, lo inchioda in un posto, il ‘suo’ habitat, da cui non deve allontanarsi, appunto perché ogni animale vive in un determinato ambiente, e da quello non può spostarsi. Ora, non ci interessa se esista davvero un luogo naturale dell’animale; qui interessa questa radicale non pensabilità dell’animale. Si potrebbe definire così l’Homo sapiens: quel vivente che non riesce a pensare l’animale, e che per pensarlo lo deve mettere in una gabbia. Che la gabbia sia di ferro oppure concettuale non fa molta differenza. Rimane una gabbia. Per questa ragione, sono gli artisti, i poeti, quelli che riescono non tanto a pensare, ma a permettere all’animale di mostrarsi. Il pittore, ad esempio, non vuole dirci cos’è l’animale (per questo il pittore non è un filosofo, anche se la citazione di Derrida posta in epigrafe potrebbe essere adattata anche all’artista). Il suo lavoro è più modesto, ma anche più ambizioso. Più modesto, perché il pittore non cerca il concetto, la definizione, la rappresentazione esplicita. Il pittore non dice cos’è il mondo, il pittore è il mondo che cerca di vedersi attraverso gli occhi del pittore. In questo senso il pittore ‘aiuta’ la visibilità del mondo ad essere ancora più evidente. Il pittore, anche quello di regime, non ordina al mondo di essere così e così. Il “visuale”, che è un’altra delle manifestazioni dell’animalità come fuga, è più forte di ogni immagine. In questo senso il pittore, anche quello più ‘umanista’, è comunque al servizio dell’animale. Il pittore – spesso suo malgrado – lascia essere animale l’animale. Perché l’immagine, anche quella più artificiale e costruita, comunque scappa via, è più potente della sua descrizione e del suo progetto: nelle immagini “nulla”, scrive Didi-Huberman, “è qui ‘del tutto’. Tutto è quasi” (Georges Didi-Huberman, Davanti all’immagine, p. 299). Non esiste un ‘tutto’ che esaurisca la potenza del “visuale” (ivi, p. 33), che altro non è che questa radicale e incolmabile eccedenza del mondo rispetto alle nostre parole. Allo stesso tempo, e per questa stessa intrinseca ‘incapacità’ a dire tutto dell’immagine, il pittore è più ambizioso del filosofo. Infatti il pittore permette all’animale di presentarsi come un animale, misterioso e banale, impensabile e quotidiano, spaventoso e ovvio. Come il leone della “Noia, Video 3’33” (2009), in cui Mauro Folci ci mostra l’incontro fra un leone ed un uomo. Sono fermi, ai due lati di un tavolino, l’uomo seduto, il leone poggiato sulle zampe posteriori. Un incontro che è al di là di qualunque rappresentazione dell’animale, perché se il leone è un leone, e l’uomo un uomo, non c’è nessun’altra ragione perché i due si incontrino. Per questo è un incontro, perché non c’è nessuna ragione che lo giustifichi. Un incontro che non doveva avvenire, e che proprio per questo è avvenuto. “Noia” ci lascia senza parole, e forse è questa la noia a cui allude il titolo scelto dall’artista. La noia che assale invincibile quando non c’è più niente da dire, perché tutto è già stato detto, e rimane solo l’evidenza muta delle cose, potentissima ma anche del tutto ovvia, perché non c’è niente di più noioso dell’ovvietà delle cose. Folci non ci dice cos’è l’animale, tantomeno ci dice cos’è l’uomo. Nemmeno ci mostra l’animale. Organizza un incontro, e lo lascia essere. Ci obbliga, noi spettatori, a vedere quello che non sappiamo pensare. Questa è la noia, vedere quando non ci sono più parole. In un certo senso è solo allora che cominciamo a vedere qualcosa.

È interessante come il leone di Folci continui a scappare anche se rimanga fermo con le zampe poggiate sul tavolo. Scappa attraverso lo sguardo dello spettatore, che continua a guardare, come catturato dalla sua immobilità, e che tuttavia non può non pensarlo come il paradosso di un leone fermo, che non uccide e non ruggisce. Per questo scappa anche se non si muove. È talmente fermo che la sua immobilità freme. La noia è la tensione che induce nello spettatore, che si annoia perché non succede nulla, perché il leone non balza con le fauci spalancate sull’uomo, e perché questi non fugge via terrorizzato. Una noia senza riposo. Piena di movimento e di attese, e che tuttavia lascia insoddisfatto lo spettatore, viziato da troppi documentari sui leoni del Serengheti, in Tanzania.

Scappa anche l’asino di Robert Bresson, dal film Au hasard Balthazar (1966), che compare in un altro lavoro di Folci, “Penultimità”, un video presenta in loop l’ultimo istante della vita dell’asinello: “reiterare l’immagine dell’ultimo momento della vita dell’animale, spingendola con l’espediente del loop a non concludersi mai, ha significato confrontarsi con questa accezione dell’esaurimento che è la penultimità, il passo che precede la fine. La penultimità è il gioco spericolato che avviene sull’orlo della fine”. E così, con le parole dello stesso Folci, la penultimità non cessa di ‘penultimare’, di continuare a non finire. In questo senso l’asino di Bresson può non smettere di scappare. L’animale è questa continuità di movimento che sfugge ad ogni cattura, anche alla morte, come ci ha mostrato Derrida. Solo la cosa nominata muore, l’animale invece continua a scappare, e così può divenire cibo, escremento, terra, gas; che non sono altro che la continuazione della fuga sotto altre forme. Appunto perché la fuga dell’animale non finisce mai, come il loop di Folci.

In “Vacanze”, 2017, c’è questo orso che ci osserva, che ricorda quello minaccioso di Grizzly Man (2005) di Werner Herzog. Sullo sguardo animale s’è detto  tantissimo, proprio a partire da Derrida, e dal gatto che l’osserva quando esce dalla doccia. Tutto un parlare di occhi e sguardo che è presto diventato stucchevole, perché, ancora una volta, ha spostato il discorso dall’animale che scappa all’uomo che si sente osservato. Lo sappiamo bene, ormai, gli occhi sono lo specchio dell’anima, e così via fino ad arrivare velocemente all’etica e al rispetto dei diritti degli animali. L’orso di Folci non si sa che stia guardando, in effetti non si sa mai che guardino gli animali. Di sicuro non ci osserva come noi osserviamo lui, cercando in quegli occhi la violenza della natura o l’ingenuità ottusa della bestia. Sono occhi, tutto qui. Per questo si tratta di una “vacanza”, perché ci portano via dalle nostre parole e dai nostri concetti. L’animale è la vacanza dell’uomo. L’uomo che non c’è più, la sua vacanza da sé stesso. Solo quando non c’è più, quando appunto è in vacanza, può incontrare l’animale, come il leone, o l’asino ‘morto’ nel prato. L’orso ci guarda non per vederci, ma perché gli occhi sono affascinati dal “visuale”, e non per spiegarlo o ridurlo ad una parola. Il “visuale” mangia lo sguardo. L’orso di Folci ci porta in vacanza, nostro malgrado, cioè ci trasforma in “visuale”, mondo, cosa. Per questo ci spaventa, non perché l’orso sia pericoloso (non lo è più di un qualsiasi umano), ma perché l’orso, come animale che scappa, fa scappare dall’uomo anche l’uomo che sta osservando.

In effetti se l’animale coincide con la sua fuga, l’animale non cessa di diventare quell’animale che sta scappando. L’animale trascina con sé. L’animale è inarrestabile, come quando le formiche entrano in una casa, passando per i muri, dentro le tubature, ignorando confini e proprietà privata. L’animale è questa forza che destituisce ogni potere, che non lo abbatte se non ignorandolo. Una forza che può essere violenta (come quella dell’orso), oppure mite e cocciuta come quella delle formiche; rimane una forza che non oppone alla forza un’altra forza, al contrario, è una forza senza forza. La forza di chi non ha nessuna forza, e proprio per questo è imbattibile. Quella forza che porta oltre le forze. L’animale, allora, è come Pulcinella, che non è altro che “uscita dalla scena, dalla storia, dalla fatua, inconsistente vicenda in cui si vorrebbe implicarlo. Nella vita degli uomini – questo è il suo insegnamento – la sola cosa importante è trovare una via d’uscita” (Giorgio Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, p. 45). Con il suo sguardo senza occhi, senza sentimento né riconoscimento, puro accesso alla luce del mondo, l’orso di Folci ci indica, ma senza avere alcuna intenzione di indicarci alcunché, che una “via d’uscita” c’è. Si può scappare, si può sempre scappare, si deve scappare.

Una fuga non tanto da un pericolo determinato, quanto da quel mondo sociale che, al contrario, ha come suo scopo specifico controllare e assoggettare l’esistenza umana. L’equivoco ricorrente – che si basa su una lettura ingenua e molto parziale di Foucault – è pensare il controllo sulla vita umana, la biopolitica, sia un fenomeno storico, e quindi auspicabilmente temporaneo. Sarebbe in particolare la società post-capitalista quella che maggiormente controlla l’esistenza degli esseri umani. Come se, invece, una vita umana al di fuori della morsa biopolitica fosse mai esistita. In realtà Homo sapiens significa Homo biopoliticus, cioè l’animale del controllo e dell’autocontrollo (e quindi dell’“identità di ragione e dominio”; Max Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, p. 100). Non è un caso, allora, che la figura estrema sui cui lavori l’ultimissimo Foucault, quello del corso al College de France del 1984, sia quella del cinico, del filosofo-cane, per il quale “l’animalità non è un dato, ma un dovere” (Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. II, p. 254). L’animalità del cinico è quella di una vita che non teme più nulla, oltre la vergogna e il desiderio, oltre il denaro e le istituzioni sociali: “l’animalità è un esercizio. È un compito per sé stessi e, al contempo, uno scandalo per gli altri. Assumere, davanti agli altri, lo scandalo di un’animalità che è un compito per sé stessi: ecco dove porta il principio della vita diritta dei cinici, in quanto questa è parametrata sulla natura e in quanto questo stesso principio della vita diritta parametrata sulla natura diviene la forma reale, materiale, concreta dell’esistenza. Il bios philosophikos in quanto vita diritta è l’animalità dell’essere umano raccolta come una sfida, praticata come un esercizio, gettata in faccia agli altri come uno scandalo” (ivi, p. 255). Il cinico, allora, come figura limite dell’umano, che prende sul serio la sfida dell’animalità. Qui è evidente che l’animalità non ha più nulla a che fare con i diritti animali, con gli animali d’affezione e nemmeno con gli animali senzienti. Qui l’animale non ha più nulla di umano né umanizzabile, tanto meno di giuridico. È un leone, un asino, un orso, un filosofo-cane.

La forma più radicale di fuga è, allora, il divenire-animale di cui scrivono Deleuze e Guattari. Il divenire animale è propriamente il divenire fuga, il divenire Pulcinella, il divenire cinico dell’umano, perché, contro ogni pessimismo, “la possibilità di salvarsi [è] sempre possibile” (Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, p. 356). E come si salva, il cinico? Uscendo, con un solo gesto radicale, dal regime della soggettivazione, dell’individuo proprietario, dell’Ego che controlla l’Es. In fondo il cinico non è che un corpo. Il divenire animale è, finalmente, il divenire corpo di quel vivente che si definisce Homo sapiens, animale parlante e razionale. E divenire corpo vuol dire non avere paura del mondo, confondersi con esso, diventare-mondo infine: “fate rizoma, ma non sapete con cosa potete fare rizoma, quale stelo sotterraneo farà effettivamente rizoma o farà divenire, farà popolazione nel vostro deserto. Sperimentate” (ivi, p. 356). Il punto da ribadire, e ogni filosofia dell’animalità che non colga questo punto non ha ancora neanche cominciato a pensare l’animalità (Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità), è che il cinico si salva solo perché non ha niente da salvare, nemmeno sé stesso. Soprattutto sé stesso. Il cinico, infatti, non lascia solo il denaro e le cariche sociali, lascia soprattutto sé stesso. E così la figura finale del percorso animale di Folci è, e non poteva essere altro, quella dell’esodo, una parola «che rimanda ad una soggettività in movimento, ad una reattività positiva che segna l’evento di rottura dello stato delle cose, che evoca un libero dispiegamento della propria potenza di agire» (da “Esodo Video 1’30”, 2011). L’esodo non va in nessuna direzione, l’esodo esoda, per così dire, come il vento soffia e il mare ondeggia. Se l’esodo avesse una meta questa sarebbe lo stesso esodo. Ma non può avere una meta, perché ha una meta solo quel soggetto che non ha altra ragion d’essere che difendersi dall’animalità. Non c’è un al di là dell’esodo. Per questo l’esodo è una salvezza, l’unica salvezza ancora possibile, perché con l’esodo finisce ogni speranza, come ogni rimpianto. Proprio perché non salva da nulla, l’esodo è una salvezza. L’esodo, l’animale, il mondo. Si tratta di lasciare il mondo al mondo, come infine ci ricorda Mark Strand, nella poesia “Keeping Things Whole” (da Selected Poems):

In a field

I am the absence

of field.

This is

always the case.

Wherever I am

I am what is missing.

When I walk

I part the air

and always

the air moves in

to fill the spaces

where my body’s been.

We all have reasons

for moving.

I move

to keep things whole

Libro: Mauro Folci Vacanze. Il generico, l'incompetente, l'inutile tra il 1996 e il 2017. a cura di Aanna Cestelli Guidi, Quodlibet, 2018

Vacanze è il titolo di una mostra curata da Anna Cestelli Guidi allo Spazio Auditorium Arte di Roma nel maggio del 2017. Le opere in  mostra sono quattro, più una performance che si svolge ai  tavoli del bar fuori dalla galleria: Vacanze, Zoe-bios, La fine della storia, Mal detto, Motti di spirito.

 

In Abecedario (1) Gilles Deleuze racconta di quando, nel 1936 – lui ragazzo undicenne -, il governo di Blum impose le ferie pagate a tutti i lavoratori dipendenti, e di come la borghesia di destra e antisemita della Francia di allora fosse scandalizzata, oltre che seriamente preoccupata, di quella particolare misura sociale. Racconta di quando sulla spiaggia di Deauville, località dove la famiglia si trasferiva per le vacanze estive, giunse a disturbare la quiete dei pochi, la folla dei proletari. L’odio di classe dei padroni e dei borghesi che questa legge sulle ferie retribuite liberò, fu di tale intensità che costrinse molti di loro a rinunciare al mare di Deauville. Deleuze ricorda, con un sorriso di soddisfazione, come la conquista delle ferie pagate sia stata una delle vittorie più importanti della storia del movimento proletario e per inverso come questa abbia letteralmente traumatizzato i padroni por molti anni a venire. Più di quanto avvenne negli anni 70. (…)

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