Della Vendetta

Della Vendetta
2019 mauro
In Works

Mauro Folci, Della vendetta

Della Vendetta

2019. Video, 5’31”. Foto e video di famiglia. Testi di Walter Benjamin e Edoardo Sanguineti. Voci narranti: Lorenzo Lustri, Luca Miti, Giuliano Ranucci.

Le tracce tematiche che ho voluto proporre in questa occasione espositiva, ospite del Macro(1), sono il risultato più recente di un lavoro, avviato un paio di anni fa, intorno ad alcune questioni che solleva Alexander Kojéve, nella sua interpretazione di Hegel, a proposito del ritorno allo stato animale dell’uomo alla fine dei conflitti sociali. Tali tracce si dispongono alla maniera di un seminario il cui titolo è Avere. Opera; di un video, Della Vendetta; di un audio fiaba, Il coniglio e l’avvocato; di un libretto teatrale di Sylvain Maréchal, Il Giudizio Universale dei Re, del 1793 tradotto in italiano; una installazione con il testo di Edoardo Sanguineti, Noi siamo nati per vendicare le sofferenze dei padri; e un video, Esodo, che precede di qualche anno l’attuale ambito d’interesse.

Kojève evidenzia della fenomenologia di Hegel il conflitto servo signore che, al pari di Marx, ne fa il paradigma della condizione umana, la macchina antropogenetica che ha fatto del Sapiens quel che è. Il combustibile di tale macchina da guerra è il desiderio del riconoscimento di sé nell’Altro, mentre il differenziale che determina l’esito di tale confronto è la morte: il signore ha sfidato la morte pur di essere riconosciuto tale, ha preferito cose astratte quali l’onore alla vita, mostrando, così facendo, una superiorità sulla natura che lo distingue propriamente umano; il servo non l’ha fatto, ha preferito soccombere pur di aver salva la vita. Anche se poi le cose si capovolgono in quanto la storia appartiene al servo, centrale rimane la morte come ci ricorda lo snob giapponese di Kojève, anche se nella forma del suicidio gratuito e puramente estetico, e come ritroviamo, in forma diversa, nell’eterno presente del modello americano, dove presumibilmente, visto che l’eterno presente è una condizione solo animale, la morte dell’uomo è stata sostituita con il decesso che è proprio di questo. La dialettica è desiderio, conflitto di classe e di morte, e la sintesi è il riconoscimento pieno e reciproco in uno “stato universale e omogeneo”, ma se da una parte quella intesa da Hegel è una dialettica, per così dire, inclusiva – la sintesi è altra cosa dai termini dialettici pur includendoli – in Marx il cerchio si chiude solamente con: 1) l’annientamento definitivo della classe borghese e il trionfo del proletariato; 2) l’autoannientamento della classe proletaria concomitante con l’annientamento dello stato. Ora se la guerra tra classi è irriducibile a qualsiasi compromesso storico, in quanto l’obiettivo della lotta è l’annientamento definitivo delle classi, è conseguenza logica che l’odio di classe sia imprescindibile dal desiderio di vendetta.

Non c’è dubbio che oggi l’odio e il desiderio di vendetta siano quelli della classe dominante, è una evidenza accecante a ogni latitudine del globo terrestre, ma qui si parla di vendetta rivoluzionaria che vuol dire vendicare la storia, che vuol dire aver guadagnato la coscienza che la storia appartiene all’ultima classe schiava, quella che ha fatto il mondo e al contempo (ahimè ancora in potenza) condotto l’umanità fuori dal regime delle necessità, con il proprio lavoro e l’intelligenza cooperante.

La vendetta dei proletari è per il godimento. La vendetta rivoluzionaria è la vendetta degli ultimi, degli oppressi, dei contadini affamati e degli operai sfruttati, dei neri dell’Africa e degli indios extraeuropei, delle donne e degli uomini liberi; la vendetta di questo genere è espressione di un odio di classe accumulato in secoli di soprusi e di ingiustizie e che di volta in volta erutta come un vulcano con decisione e forza dirompente rivoluzionaria, come si racconta nel libretto teatrale Il Giudizio Universale dei Re, opera esposta in mostra. La vendetta ha una relazione forte nella tradizione rivoluzionaria comunista, una traccia di tale rapporto si trova nelle Tesi di filosofia della storia, di Walter Benjamin: “Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.”(2)

Questa esigenza che non si lascia soddisfare facilmente, a cui fa riferimento Benjamin, è la vendetta. Più avanti lo dice chiaramente: “Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa oppressa che combatte. In Marx essa appare come l’ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti.(3)  Benjamin, in questa tesi, ce l’ha con la socialdemocrazia che assegna alla classe operaia la funzione di “redentrice delle generazioni future” e questo è stato possibile eliminando dal vocabolo riformista l’odio di classe e la spinta rivoluzionaria,poiché entrambi [l’odio di classe e la spinta rivoluzionaria] si alimentano all’immagine degli avi asserviti, e non all’ideale dei liberi nipoti.”(4)

Questo passo è ripreso da Eduardo Sanguineti in un breve saggio con il titolo Come si diventa materialisti storici?: “Il proletariato è caduto in un errore spaventoso quando si è proposto di pensare alla felicità dei figli futuri, quando il problema, invece, è la vendetta.(5)” E poi continua sull’idiozia di pensare alla felicità dei figli, quando invece bisognerebbe “riportare l’accento sulle sofferenze, che non sono solo quelle da vendicare con odio, sofferte dai padri, ma anche quelle che intanto cominciano a soffrire direttamente, essi stessi (i figli), nella loro carne.”(6)

Poco più avanti Sanguineti cita Minima moralia in cui Theodor Adorno consiglia lo sgarbo: bisogna essere scortesi verso gli altri,  e imparare a dire no, così che si mettano bene in evidenza gli attuali rapporti “disumani”. Sanguineti segue il discorso di Adorno anche nella moderazione quando sostiene che c’è posto per la solidarietà dei borghesi nella lotta di liberazione del proletariato; sa bene cosa vuol dire, anch’egli appartiene alla classe nemica, ma precisa: “credo però che altrettanto forte [forte come l’odio di classe] possa essere la solidarietà umana con i proletari e, in esclusiva, con coloro che si rendono complici con noi di un progetto eversivo, e questo progetto eversivo conserva il nome di rivoluzione.”(7)

Ecco dunque il punto, l’intento di Della vendetta è di gettare sul tavolo del dibattito che insiste sull’incantesimo del tempo e su come tener fronte alla violenza del capitale, la parolina vendetta. Senza nulla togliere all’amore francescano o alla misericordia cristiana tradotta in solidarietà, che negli ultimi tempi sembrano guadagnare peso nel discorso più alto sul comunismo, penso sia interessante se non opportuno rispolverare i vecchi, mai così attuali, fondamentali del conflitto lavoro-capitale. Questa parolina, con cui intratteniamo un rapporto originario di attrazione e respingimento, di amore e di odio, e che oltretutto, non dobbiamo dimenticare, sta all’origine di ogni ordinamento giuridico e quindi dello Stato, può fare da controcanto al presunto naturalismo del capitalismo, e dare visibilità al terzo polo contrapposto all’alternativa colta da Kojève nell’eterno presente dell’American way of life o nello snob giapponese. La vendetta rivoluzionaria è fuori dal bipolarismo americano-giapponese, non perché non sia reale l’incantamento del tempo che persiste nel presente, lo vediamo benissimo in ogni dove, ma esattamente per questa stessa evidenza la vendetta di classe dà a vedere un’altra realtà, altrettanto accecante quanto il sonno del presente che non passa: che i conti non tornano ancora e il disavanzo continua a crescere vertiginosamente di ora in ora. La vendetta annuncia: un nuovo fantasma si aggira per il mondo.

Per i palati delicati, va ricordato che intorno a sentimenti come la paura, la vergogna, il risentimento, l’odio, e la vendetta correlata a quelli e ai modi di gestirli, è andato a costituirsi un codice normativo. Che siano le condizioni sociali che disinibiscono tale desiderio, o che sia questa macchina umana desiderante che persegue egoisticamente il proprio interesse a far insorgere e alimentare il sentimento della vendetta, che sia già presente nello stato di natura o che compaia solo in società è materia da cui traggono le loro ideologie e geometrie politiche i contrattualisti moderni. Questo solo per dire della centralità di una passione fortemente contagiosa qual è la vendetta.

Che si tratti della vendetta di classe o della vendetta personale, il grado zero da cui partire è:  la vita offesa che pretende giustizia. La relazione stringente tra vendetta e giustizia e tra vendetta e libertà è testimoniata dall’etimologia che tra i vari passaggi significativamente annota: “Il verbo che in latino indicava l’azione del vindex era  vindicare, mentre l’azione era detta vindicta. Un uso particolarmente diffuso con queste due parole era quello in unione con in libertatem: vindicare in libertatem, vindicta in libertatem. Noi diremmo pressappoco “rivendicare in libertà”, “rivendicazione in libertà.”(8)

C’è una vastissima bibliografia che condanna senza appello la vendetta opponendo a questa la cortese pratica del perdono, come se questo non potesse essere una forma di vendetta crudele. Per Spinoza, ad esempio, è una passione triste e per Nietzsche il risentimento che inchioda nell’immobilità chi ne è affetto. Ma c’è tanta altra letteratura che legge la fenomenologia della vendetta in modo dissimile e non di rado di elogio come sappiamo dai miti, dalle religioni, dalle tragedie greche, dalle rivoluzioni.

Elettra: … tu dici forse un giudice, o un giustiziere?

Coro: dico un vendicatore, semplicemente che ucciderà.(9)  [la madre Clitemnestra]

Nella Grecia antica come nella Barbagia. Un lavoro di gran pregio sia dal punto di vista giuridico che antropologico e filosofico è lo studio condotto da Antonio Pigliaru, alla metà del secolo scorso, sul codice barbaricino basato esclusivamente sulla vendetta: per la comunità barbaricina la vendetta è codice etico di comportamento e giurisprudenza. Non è un codice scritto ma le tradizioni e le consuetudini millenarie, protratte fin dentro la tarda modernità, fanno della vendetta un vero e proprio ordinamento giuridico che si oppone radicalmente al codice scritto dello stato. Dalla ricerca svolta sul campo tra i contadini, i pastori e i banditi di quel territorio, Pigliaru coglie l’esistenza di un codice comportamentale tanto antico quanto vincolante e imperativo che si basa sulla vendetta. È un codice etico trasmesso oralmente da cui Pigliaru formula 23 articoli scritti con il linguaggio giuridico dello stato: art.1 L’offesa deve essere vendicata. Non è uomo d’onore chi si sottrae al dovere della vendetta […]. art. 3 Titolare del dovere della vendetta è il soggetto offeso.(10)

Vendicarsi è un obbligo morale, ne va dell’onore che è al vertice dei valori di quella comunità. La cosa interessante da sottolineare è che il codice barbaricino si configura come sistema autonomo parallelo allo stato e in più contro lo stato, vale a dire, come soggetto politico autonomo: “questa comunità è semplicemente una comunità di vita, una comunità storica, nel senso che il suo sistema di vita (il suo costume, la sua cultura o, se si vuole, la sua non-cultura) sono il suo stesso processo storico, la sua stessa vita: una struttura e, in qualche misura, un sistema.”(11)

Abbiamo detto che la vendetta risponde al bisogno di giustizia della vita offesa. Cosa vuol dire una vita offesa? Vuol dire una vita estraniata, espropriata delle proprie facoltà che non hanno potuto attuarsi o esprimersi in libertà. Oggi vuol dire una vita venduta con tutta la carne e con l’anima per un salario di sussistenza, per quel poco che basta alla riproduzione di soggetti naturalmente soccombenti. La vendetta proletaria, allora, per essere all’altezza dello scontro di classe, deve puntare in alto e rovesciare i rapporti di sovranità, per sé e per tutti gli altri “dannati della terra”. Deve possedere pienamente coscienza della propria regalità: la storia, ossia il mondo, appartiene al servo e non al signore parassita. Deve far propria una regalità tanto forte da ricacciare senza indugi, sull’esempio di Diogene di Sinope, la regalità dei tanti re come Alessandro: Diogene non rivendica a sé una vita piena e di verità, perché la sua è già vita sovrana e di godimento, pienamente dispiegata e irriducibile a qualsiasi comando. Questa forma di sovranità del soggetto di fronte al potere costituito può, tra le tante, assumere forme paradossali e radicali come ho provato a raccontare con il video Esodo (Vuoti di segno contro il Leviatano).

Esodo è la storia di due amanti, un uomo e una donna che decidono di suicidarsi con i gas di scarico dell’automobile, ma prima di morire hanno avuto un rapporto di intimità. Una storia d’amore tragica come tante se ne vedono al cinema con la differenza però che i protagonisti sono vecchi, lei ha 85 anni, lui 80.

Se esodo, nell’accezione proposta dal video, è una parola che rimanda a una soggettività in movimento, a una reattività positiva che segna l’evento di rottura dello stato delle cose, che evoca un libero dispiegamento della propria potenza di agire, cosa c’entra con la storia dei vecchi amanti suicidi? Che relazione ha con la morte? Lo dico subito: quasi nulla. Il quasi è il problema e va spiegato tenendo a mente ciò che è stato detto a proposito della morte come differenziale tra vita sovrana e schiavitù.

Esodo è forza prima, è consustanziale alla natura umana, segna da cima a fondo la formazione in divenire del soggetto. In forza di ciò esodo è più di un’aspirazione, una pratica irrinunciabile, con esiti a volte mortali come ci ricorda la mattanza dei profughi e immigrati nel Mediterraneo, di liberazione dalle catene della schiavitù e di pratica militante per chiamarsi fuori dalle convenzioni culturali, disciplinari e sanitarie.

Esodo è prima della rivolta. È sulla strada dell’esodo che si incontrano i rivoluzionari e i fuori misura che hanno fatto e fanno grande la letteratura, la filosofia, l’arte. Esodo per Albert Camus è il nome stesso della rivolta. Esodo è rifiuto, esodo è fuga. Nell’Inghilterra di fine Settecento la polizia e l’esercito andavano per bettole a reclutare con la forza gli operai per la nascente industria, tanto radicale era il rifiuto del lavoro sotto padrone. Da ciò il rapporto di lavoro salariato, contrattualizzato tra soggetti liberi, si è storicamente costituito come una tecnica normativa attraverso cui il capitale ha cercato di  contenere il rifiuto del lavoro e il desiderio di fuga del lavoratore.

Se la sfida che oggi pone il biocapitalismo è il controllo  dell’insieme delle facoltà che distinguono l’umano a partire dalle competenze generiche linguistiche e dalla capacità cooperativa di soggettività diverse, se la sfida è con questo semiocapitalismo che ha trovato nella nuda vita il segno, la forma della produzione permanente, allora l’ipotesi discutibile ma radicale avanzata nel video Esodo, tra i mille piani della realtà immanente, rientra nelle modalità del possibile. Modalità estremamente rischiosa se non fosse altro che riconosce in misura preoccupante il passaggio o la coesistenza di una tanatopolitica al servizio della tanatoeconomia.

Il punto fosco e paradossale che si coglie nel video è dunque questo: se per esodo si intende una pratica di emancipazione da oggetto di produzione a individuo in libera soggettivazione, e se esodo  e poi la rivolta si ha là dove il potere è vuoto di segno, cioè di senso, allora nella storia dei vecchi amanti suicidi, l’exit mortale che priva il proprio corpo di ogni segno utile alla produzione è l’estrema modalità di sottrarsi alla cattura: vuoti di segno contro il Leviatano. Del resto dai corpi dei vecchi amanti non traspare né dramma, né tanto meno sofferenza. Al contrario nei loro volti possiamo leggere solo serenità, anzi a guardar bene possiamo riconoscere quel sorriso beffardo di chi alla fine l’ha vinta sul tiranno… portandosi via con sé un amore infinito.

Le modalità della vendetta proletaria sono un’infinità, quella suggerita dal video Della Vendetta, ad esempio, è il riso della comicità che tradizionalmente ha una funzione censoria rispetto ai poteri costituiti. Nel video si racconta la storia di una famiglia operaia della fine degli anni Sessanta di una città di provincia, la famiglia in questione è la mia e a essa si riferiscono i materiali visivi: una fotografia che ritrae la consegna della borsa di studio per merito alla sorella maggiore, un filmino 8 mm di Superman donatomi dalla befana aziendale e la scena di un film comico di Stanlio e Ollio che ballano.

Infatti, era pratica abbastanza comune delle fabbriche una politica inclusiva che, attraverso forme di sostegno e di cura rivolte ai propri dipendenti come le borse di studio ai figli meritevoli, i giocattoli ai bambini, le colonie estive, le celebrazioni di comunioni e cresime, le feste di fine anno scolastico e le attività sportive, mirava al contenimento dei conflitti nei luoghi di lavoro. Ingegneria e biopolitica, allora come adesso.

Le parole di Walter Benjamin e di Edoardo Sanguineti compongono per intero il sonoro, a rimarcare la vendetta rivoluzionaria come traccia interpretativa del materiale visivo. La vendetta per essere rivoluzionaria ha bisogno di coscienza di classe e ciò vuol dire aver chiaro il rapporto irriducibilmente conflittuale tra la norma e la sua applicazione, tra comando ed esecuzione, come ad esempio si evince dalla divertente e intelligente favola Il coniglio e l’avvocato.(12)

Ciò che ho trovato interessante della favola scritta da Claudio Giangiacomo, e che ho voluto esporre alla mostra Della Vendetta come elemento integrato al mio lavoro artistico – trasformandola in un audio fiaba -, è l’insolita forma di menzionare il rapporto irriducibilmente conflittuale tra la norma e la sua applicazione, tra comando ed esecuzione. Il contenuto metalinguistico, ovviamente tra i tanti possibili della fiaba, che ho colto e voluto sottolineare è esattamente questo iato che separa la norma dalla sua applicazione, tema centrale della nostra riflessione sulla fine dei tempi storici. La Legge, infatti, è l’oggetto del contendere tra l’avvocato e il coniglio che ne svelano un aspetto paradossale: la Legge è una di quelle istituzioni soggette al regresso infinito che ha origine dal tentativo di fondare su una regola ulteriore l’applicazione della regola stessa. È sufficiente chiedersi qual è il fondamento di una norma per constatare che al fondo della serie infinita dei fondamenti non c’è un bel niente. Un regresso che, al pari di tutte le forme di regresso da cui siamo per natura e fatalmente attratti, deve necessariamente essere interrotto se non si vuol fare la fine di Bartleby. Tale interruzione, infatti, il più delle volte è salvifica e qualche volta anche rigenerativa, ma altre volte è disastrosa come è capitato al povero coniglio che chiedeva conto del fondamento della Legge Universale all’avvocato, al contempo custode e vittima, più o meno consapevole.

La vendetta proletaria può assume differenti forme a seconda delle condizioni storiche e dei rapporti di forza delle classi in conflitto, alcune volte si combatte con le armi dell’ironia, altre volte con le rivolte cruente e con le rivoluzioni, altre ancora con entrambe i mezzi, come è il caso del video Della Vendetta e come testimoniato dall’ultima opera in mostra, Il Giudizio Universale dei re, un libretto teatrale del 1796 scritto dal rivoluzionario Pierre Sylvain Maréchal, tradotto con Francesca Gallo(13) ed edito per la prima volta in Italia. L’incontro con questo testo teatrale e con il suo autore è stato del tutto fortuito, è capitato per caso: sulle tracce di alcune storie di rivolte contadine e proletarie nell’Europa del trecento, passando per le rivolte francesi della Jacquerie, mi sono ritrovato naturalmente tra i sanculotti di cinque secoli più tardi, e qui ho fatto conoscenza di Maréchal uno scrittore e poeta protagonista nella rivoluzione francese. Un personaggio interessante, un socialista rivoluzionario, un fervente anticlericale, un precursore del comunismo che redasse il Manifesto degli Eguali (1796) con Gracco Babeuf, con il quale prese parte attivamente alla fallimentare congiura degli Eguali. Maréchal, che curiosamente in tarda età manifesta un carattere misogino, si batteva per una uguaglianza reale e non virtuale, come quella scritta sulle carte costituzionali che egli criticava aspramente, per l’abolizione della proprietà privata e per l’uso comune dei beni.

Di questo libretto teatrale dal titolo eloquente, la cui prima rappresentazione ebbe luogo il 18 ottobre del 1793, a pochi giorni dall’esecuzione di Maria Antonietta, rimando alla godibile lettura del testo, qui integralmente riprodotto. Riporterò, invece, la testimonianza diretta di un attore “nero” – così chiamato perché emarginato, tra i molti, dall’egemonia del teatro della rivoluzione -, schifato, ma allo stesso tempo “stranamente” affascinato dalle orde di proletari pezzenti, sporchi di terra e di sangue che affollavano rumorosamente le sale dei teatri, prima di allora luoghi dell’aristocrazia e della borghesia: “ogni sera eravamo sottoposti ad una autentica tortura […]. I Picchia-duro facevano un baccano d’inferno in platea, cantando (o, meglio, grugnendo) canti patriottici alla faccia degli spettatori meno turbolenti […]. Con le vesti lacere, sporchi di fango e talvolta di sangue, offrivano una vista spaventosa, che pure, ai miei occhi, sembrava non mancare di una certa selvaggia grandiosità […]. Parevano un’orda di barbari che avesse invaso di colpo la Francia. Andavano e venivano per bande, spesso accompagnati da donne del loro partito, ancora più terribili di essi, se mai fosse stato possibile. Quelle d’una certa età solevano chiamarsi Ricamatrici; le giovani, furie della ghigliottina. Da parte mia, quando vidi per la prima volta i picchia-duro scatenarsi nelle loro barbare danze […], credetti che mi fossero comparse davanti, in carne ed ossa, le legioni maledette di Satana […]. questo era, dopo la catastrofe del 10 agosto, il pubblico che affollava le platee.”(14)

Ai musi sporchi di tutto il mondo dedico questo lavoro.

 

Roma, aprile 2019

note:

1    Della Vendetta, esposizione e seminario Avere.Opera. MACRO Museo Arte Contemporanea di Roma, 1-31 maggio 2019

2    Walter Benjamin, Angelus novus, Einaudi, Torino 1995, p. 76

3    Idem,  tesi n. 12, p. 82

4    Idem

5    Edoardo Sanguineti, Come si diventa materialisti storici? Manni, San Cesareo di Lecce 2006, p. 27

6    Idem

7    Idem, p. 28

8    Giuliano Ranucci, latinista, (interpretazione etimologica di)

9    Eschilo, Le Coefore, in: Edoardo Sanguineti, Teatro antico. Traduzioni, BUR, Milano 2006, p.156

10  Antonio Pigliaru, Il codice della vendetta barbaricina, Il Maestrale, Nuoro 2006, pp. 47-50

11  Antonio Pigliaru, La vendetta barbaricina. In: Amedeo G. Conte, Paolo di Lucia, Luigi Ferrajoli e Mario Jori, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 196

12  La favola, scritta da Claudio Giangiacomo, che di mestiere fa l’avvocato, è nata dalla sfida poco seria tra amici in   pizzeria, a chi scrive il racconto più bello partendo da un titolo concordato: Il coniglio e l’avvocato.

      Il coniglio, nota non trascurabile, è l’ironico appellativo di uno degli amici sfidanti. Il testo è stato adottato per editare una audio   fiaba con la collaborazione di Rita Mandolini che ha prestato la voce narrante, e il compositore Luca Mti che ne ha curato la colonna sonora.

13  La traduzione dal francese all’italiano è stata curata da Francesca Gallo, storica dell’arte dell’Università Sapienza, e relatrice al seminario Avere. Opera

14  Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel settecento, Laterza, Roma 2003, p. 199

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il proletariato è caduto in un errore spaventoso quando si è proposto di pensare alla felicità dei figli futuri, quando il problema, invece, è la vendetta.”

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