Gatekeeper

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1998 admin
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Gatekeeper

 

Passaggi negati (1)

Il    lavoro attuale di Mauro Folci, dopo alcune esperienze vistosamente segnate da accentua­te prese di posizione di tipo politico, in cui l’opera diventava “trascurabile”, nel suo porsi “antigraziosa’, secondo un versante molto frequentato dalle avanguardie storiche ad oggi, si presenta oggi come una sorta di ritorno all’opera che, in questa particolare occasione si articola in tre lavori, unitariamente, riferenti al tema del “limite”, dell’esclusione. Non è un caso che il lavoro più imponente, realizzato con frammenti di veicoli bellici, quello da cui prende il titolo la mostra: Gatekeeper, nella sua capacità di negare lo spazio stesso espositi­vo della galleria, si ponga come barriera invalicabile che impedisce qualsiasi attraversa­mento e nega, occultandolo, lo spazio stesso della galleria. Gatekeeper fa riferimento a quella sorta di Muraglia di acciaio, lunga 22 Km, costruita con i residuati della Guerra del Golfo a segnare in maniera indelebile il confine tra la città messicana Tijuana e la ricca periferia californiana di San Diego. La stessa è stata costruita nel ‘95 e, visto il grande suc­cesso ottenuto nel contenimento degli immigrati, recentemente, ne è stato proposto il rad­doppio. Ma l’idea del limite, solitamente, trova una propria naturale continuazione in quel­la di hortus conclusus, inteso come luogo del bene, contrapposto ad un luogo “altro” vissu­to come regno del male. Dalla tradizione iconografica medioevale, a quella rinascimentale, sino alla cultura contemporanea, con sorprendenti slittamenti dalla sfera orientale a quella occidentale, la contrapposizione dialettica tra luoghi diversi, rigorosamente delineati e segnati dalla “figura” del limite, ha sempre ammesso, al massimo, pochi e puntiformi punti di passaggio, ristretti spiragli di apertura, ponti, come unico momento di “ricongiunzione”. Ora, M. Folci, con la sua scelta di proiettare sulla ribalta visiva più ravvicinata ed a contatto immediato con il pubblico, quasi a ridosso della porta di ingresso dello spazio espositivo, un frammento del proprio “muro”, accentuandone l’incombenza visiva, intende sottolinea­re, proprio attraverso la messa a fuoco di un particolare, esasperato dimensionalmente, una sorta di invalicabilità dello stesso senza lasciar neppure intravedere che da qualche altra parte possano esserci punti di contatto, di interscambio. Anzi c’è in quest’opera una sottolineata ed esibita ieraticità data dai rigorosi reperti bellici, tutti ricondotti alla compat­tezza frontale della bidimensionalità, impreziositi dall’accurata e ritmata livettatura, quasi a creare altre “misure” ed altre “figure” nello spazio dell’opera che pur sempre si presenta come tale. La compattezza e l’unitarietà dei pezzi coinvolti trasforma allora quell’idea di accatastamento, come sarebbe stato logico aspettarsi, in una sorta di sipario metallico, vero e proprio boccascena tagliafuoco, studiato appositamente per non far comunicare, in caso di pericolo d’incendio o d’altro, spazi nati per riflettersi tra loro come in uno specchio, quali il palcoscenico e la platea. Non si tratta certo, attraverso questa ricercata teatralizza­zione di allentare la durezza dell’evidente ed esplicita presa di posizione politica, come sempre traspare nel lavoro di M. Folci, ma, al contrario, di lasciare quello spiraglio di libertà da ricercare solo attraverso la durezza dello ‘scavalcamento’ di una dura messa a prova fisica e morale che ha già permesso a qualcuno, proprio attraverso l’arte, di ricavare dalla stessa, occasioni reali di “evasione” e di libertà. C’è poi, in questo ricorso per la realiz­zazione dell’opera a materiali di scarto, non solo l’amara ed evidente riflessione sulla mostruosità dei materiali bellici ma soprattutto sulle loro accedenze, proprio in quanto si tratta di scarti, che rende credibile persino il loro riutilizzo al posto dei materiali e delle tec­niche tradizionali. Ma non c’è alcuna riconduzione all’idea dell’”addomesticamento” del materiale bellico in un’accezione ludico-ironica, come poteva proporre negli anni sessanta Pino Pascali. Ora non più: i venti di guerra sono incombenti su troppi fronti e sempre più condivisi, accettati come normalità ineluttabile proprio per la loro spettacolarizzazione mass-mediologica che li rende occasioni di perturbante e perversa bellezza nella loro “geo­metrica potenza” dispiegata, da vivere per di più comodamente in poltrona per gli spetta­tori planetari che non li subiscono. L’arretratezza allora di questi materiali che li rende tanto più quotidiani quanto più invecchiati e superati dalla modernità dei nuovi mezzi come memorie ripescate in soffitta, non deve trarre inganno ma fornisce piuttosto una chiave di lettura senza equivoci. La bellezza ritrovata non è che un nuovo baudelairiano fiore del male dischiusosi e quasi conservato, appiattito come è, come tra le pagine di un libro, ma al suo riapparire,anziché devitalizzato come pura memoria si rappresenta nella sua inappagata voglia di continuità, a ribadire come ossessivo memento la propria voglia di esserci, ad esibire ancora e sempre la propria carica distruttiva. Ma non è soltanto una reiterata dimensione etica all’interno del lavoro di M. Folci a caricare l’opera di significati altri, anche perché il tutto si inscrive in una sorta di ricercata continuità rispetto al suo stes­so esordio come artista. Per un artista cioè per cui l’opera è sempre stata evento visivo, accadimento in uno spazio puntiforme e discontinuo, in cui materiali più diversi si sono sempre equivalsi. Da qui il suo ricorso continuo alla manipolazione degli stessi senza riscattarli dalla loro dimensione di scarto e di degrado secondo una tradizione tipica delle avanguardie ma anche senza quella corrosiva polemica del concettualismo pauperista, semmai quasi a sottrarre gli oggetti al divenire, trasformandoli in feticcio. In questo proces­so di stratificazione spazio temporale l’opera si colloca non in una dimensione estetica ma in un ideale luogo della memoria collettiva dove soprattutto lo scarto acquisisce rilievo par­ticolare, si riflette e teatralmente si esibisce. Sibilla è la seconda opera di M. Folci che com­pare sul limite tra interno ed esterno della galleria, ed è costituita da una seggiola su cui sono appoggiate, in ordine sparso, alcune foglie in cui sono ritagliate frasi riprese da un frammento del Rohinson Crusoe, quello in cui è narrata la conquista della sicurezza da parte del protagonista, solo dopo aver costruito un solido ed invalicabile muro di recinzio­ne. Senza titolo, ultima opera della mostra è connotata da una serie di penne lasciate sul libro che ospita le firme dei visitatori. In questo caso l’artista fa riferimento all’analisi che dello stesso Rohinson Crusoe fa Jean Jacques Rousseau analizzando il testo di Daniel Defoe in cui si fa notare come fosse impossibile una diversa reazione di “Venerdi” di fronte alla potenza “divina” del fucile di Robinson. Naturalmente è il significato traslato dal fucile alle penne in dotazione dei visitatori a fornire la chiave dell’opera stessa. E’ forse in queste due ultime opere che il lavoro di M. Folci si fa più riflessione sul simbolico e paradossal­mente sul linguaggio. E’ qui che l’artista mostra più che altrove quella verità della ragione produttiva, citando sue riflessioni, che ha plasmato il mondo secondo le leggi delle merci che riconducono l’individuo a puro soggetto economico rispetto al quale, soprattutto l’arte, la creatività in generale ne sono oggi il supporto fondamentale. L’arte fuori dalla tradizio­nale e perbenista idea di “morte dell’arte” sta bene, gode comunque di ottima forma. Si è per così dire diluita nei meandri della comunicazione mercificata dove il pensiero estratto e quello simbolico, linguaggio della forma sono diventati il presupposto della produzione di merci. In queste opere più che altrove si sottolinea quella triplice dimensione di controllo che riguarda il controllo del codice, dei canali di circolazione dei messaggi e della stessa decodificazione ed interpretazione. Il tutto in nome di una vagheggiata riscoperta e ripro­posizione di quella condizione naturale per cui gli uomini avrebbero dovuto ritrovarsi libe­ri, eguali ed indipendenti, ma forse, come sembra indicare M. Folci, se non è più possibile in natura, in politica, come è già stato autorevolmente chiarito, perchè dovrebbe esserlo nella sovrastrutturalità dell’arte, e del linguaggio in generale ?

 

(1) testo di presentazione di Francesco Moschini, in occasione della mostra Gatekeeper, AAA Architettura Arte Moderna, Roma 1998

Gatekeeper fa riferimento a quella sorta di Muraglia di acciaio, lunga 22 Km, costruita con i residuati della Guerra del Golfo a segnare in maniera indelebile il confine tra la città messicana Tijuana e la ricca periferia californiana di San Diego. La stessa è stata costruita nel ‘95 e, visto il grande suc­cesso ottenuto nel contenimento degli immigrati, recentemente, ne è stato proposto il rad­doppio. Ma l’idea del limite, solitamente, trova una propria naturale continuazione in quel­la di hortus conclusus, inteso come luogo del bene, contrapposto ad un luogo “altro” vissu­to come regno del male[…]

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