Tutto il resto rosolio

Tutto il resto rosolio
2001 admin
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A seguire testi di:

Cadija Nur Hassan, Kalthoum Ben Soltane, Dacia Maraini, Massimo Canevacci, Mario de Candia, Francesco Moschini


 

Cadija Nur Hassan
di Mogadiscio, Somalia
40 anni, da 6 in Italia
lingua: somalo

O in prigione o con un’arma alla
tempia, non potrò mai dimenticare
quello che provo per te.
Nessun nemico potrà mai distruggere
quello che io sento.
In ogni parola che dico ho il dovere
di ricordarmi di te.
Amore mio chiunque proverà con un
coltello a tagliare e con l’acqua a lavare
il mio amore non ci riuscirà.


 

L’esperienza dello specchio

di Kalthoum Ben Soltane

 

L’esperienza dello specchio è stata emozionante. Era sconvolgente vedere riflesse attraverso queste parole scritte, esperienze di tante donne partite contro o con la propria volontà, lasciando dietro di se legami vitali, luoghi e terre abbandonate ma tanto amate. E poi partorire io stessa da un pensiero nato dall’istante, con tutto quello che può avere di rivelatore un tale percorso. In effetti il mio specchio mi ha assalita per tanti giorni: avrei dovuto parlare di un amore difficile o impossibile, di separazione. Ho cominciato a parlare di un sogno, di una partenza, di una nascita e ho concluso con la mia condizione di emigrata:”siamo solo emigrati, per loro, per gli altri”.Questa frase, la cui eco ancora mi ossessiona, fu una rivelazione. Confesso che non me l’aspettavo. Per una semplicissima ragione: ho sempre rifiutato di considerarmi una emigrata, come ho sempre rifiutato il concetto che esprime.

Ho accettato di scrivere sullo specchio perché il progetto mi ha presa, mi ha contaminata la passione laconica e silenziosa delle persone che l’hanno ideato. L’entusiasmo era tale che spontaneamente mi sono proposta di riempire certe pagine bianche del libro che avrebbe accompagnato la mostra. Pagine, del resto,aperte a tutte le riflessioni.

Subito dopo, e certamente a causa di questa rivelazione rispecchiata e non del tutto attesa, il mio entusiasmo si è spento. Improvvisamente tutto mi parve vano. Erano e saranno solo parole, impotenti, incapaci di cambiare la realtà delle cose.

tuttavia, passata la forte emozione e riflettendo, ho deciso di coprire lo spazio bianco in attesa, ho ristabilito quella verità cui ho sempre creduto: le parole, le idee a forza di essere scritte, proclamate, finiscono per arrivare da qualche parte e ad avere eco, risonanza. Le mie si propongono come la somma di una riflessione sull’emigrare.

Un tentativo come un’altro.

L’emigrato viene definito comunemente dalle istituzioni come una persona che lascia il proprio paese per un altro solo alla ricerca di una vita migliore, di un lavoro. Ed è sempre un sogno!

In passato questo era realizzabile e gli emigrati erano richiestissimi. Penso alla generazione di mio padre, in tanti partirono: chi in Francia, chi in Germania, chi in Italia… tanti erano analfabeti e al costo di innumerevoli sacrifici e di un lavoro estenuante nei cantieri e nelle catene della Fiat, della Renault…,sono riusciti a vivere decentemente, a integrarsi.

Questo fu l’emigrato tipico, il cui sogno è stato trasmesso alle generazioni future. Sogno che idealizzava, enfatizzava l’Europa, isola felice dove i soldi si raccoglievano a palate. Ed è su questo sogno che si è fatto e si fa tutt’oggi, il lavoro subdolo e discriminante delle istituzioni per legittimare o meno l’accettazione di un emigrato.

Risalgo a tempi molto lontani. Tempi in cui la gente viaggiava con le carovane. Andavano da un paese all’altro scambiandosi idee ed esperienze. Percorrevano lunghissime distanze per raggiungere le città più note della cultura e delle scienze. Era bello!

Qualcuno era considerato uno straniero ma nessuno era un emigrato o lo era nel senso latino del termine. Perché allora, il diritto di conoscenza era concesso a tutti gli uomini, e questo diritto non conosceva frontiere ne ostacoli.

Penso ad un passato più recente. Penso alla mia generazione… Il mondo fremeva di idee nuove, di cambiamenti, di rivolte e rivoluzioni, di guerre…tutti partivano da tutte le parti del mondo verso  altre destinazioni.

Faccio parte di questa generazione di partenti. La partenza ha alimentato gran parte dei nostri sogni di gioventù. Sogni d’utopia, dove l’Europa era diventata l’emblema della libertà e della democrazia.

Penso ai rifugiati, agli apolidi, agli artisti, ai sognatori. Penso a loro e a tante altre figure e mi chiedo dove la mettiamo questa categoria dei partenti sognatori, che non è partita alla ricerca di un lavoro, di una ricchezza ma che pure ha lasciato il conforto, l’affetto, la sicurezza, per seguire un progetto, un sogno diverso da quello dei padri.

Oggi nuovamente tutto è cambiato: le frontiere e le divisioni sono più presenti che mai, più marcate che mai. Una parte del mondo, quella più ricca, si è resa inaccessibile e al tempo stesso ha globalizzato il sogno degli ‘emigrati, lo ha limitato riducendolo a un meccanismo controllabile dagli stati e dai loro organismi, meccanismo che esprimendosi in termini di cifre, di percentuali, di capacità di accoglienza, lo ha spogliato della sua diversità, dei suoi aspetti più singolari e dunque più umani.

Sono nata in una parte del mondo dove non ci è concesso di andare da nessuna parte. Da nessuna parte siamo i benvenuti. Una generazione privata del sogno di  partire, di conoscere, di scoprire. Una generazione colpevole di essere nata nel terzo mondo.

Se ai nostri giovani fosse concesso partire, viaggiare, e non fossero costretti a fare file inumane davanti ai consolati per ottenere quei famosi visti subendo le peggiori umiliazioni; se avendoli ottenuti non si trovassero spesso rimpatriati, perchè non si dispone di mezzi di sostegno sufficienti…Se non gli venisse negata la convinzione che il mondo può appartenere a loro, e  ad ognuno dei loro sogni, tanti non sarebbero morti annegati, tanti non sarebbero finiti sui marciapiedi o nei vicoli scuri a spacciare veleno.

Crescere e sapere che non puoi andare da nessuna parte. Crescere e sapere che parte del mondo, che scopri e conosci nelle lezioni di storia e di geografia e in seguito attraverso i libri e gli scritti ti è impedita. Crescere con questa frustrazione fa che quando riesci a partire non vuoi più tornare e fai di tutto per farcela, per rimanere, accettando le condizioni più inumane. Crescere e scoprire tutto ciò e la partenza diventa suicidio, morte.

Io sono riuscita a partire. Mi sentivo tra gli eletti. Mi sentivo soprattutto piena e fiera del mio bagaglio culturale, dei miei diplomi, della mia grinta…non sono partita per lavorare. Non sono partita con l’intento di rimanere per sempre. Sono partita per conoscere, per scoprire, per scambiare, per misurarmi  alle differenze, non vedevo l’ora di tuffarmi nel mio sogno.

Ho lasciato un paese che mi sembrava piccolo per il mio sogno. Altri paesi più grandi me l’hanno divorato.

Chi sono? O chi sono diventata?

Una semplice emigrata schiacciata dal peso della burocrazia e di una politica che mi riduce ad un semplice reddito. Lavorare doveva essere il modo di realizzare gli altri scopi della mia partenza, è diventato lo scopo primordiale. Ovunque vado mi chiedono il reddito e deve pure essere fisso: per affittare una casa, per comprare qualsiasi bene, per il permesso di soggiorno…per tutto.

E corrono corrono gli emigrati per assicurarlo il reddito, e sudano a non farcela più, per dimostrarlo questo maledetto reddito.

Dov’è il sogno della partenza? Che ne resta? Dov’è la vita in tutto ciò? Dov’è la dignità se sei solo un reddito fisso che ti permette di rimanere in una società che vede in te essenzialmente quello che può pulire le case dei suoi autentici cittadini e guardare i loro bambini, e che al primo crimine commesso, alla prima rapina grida “fuori gli stranieri”. Bella contraddizione, strana società!!!

‘Partire è morire un po’. Qualche anno fa avrei risposto: partire per rinascere perché partire è un atto di coraggio di chi accetta di diventare cittadino del mondo o di una parte del mondo diversa da quella dove è nati, dove si sa chi sono e dove hanno già fatto le loro prove, le loro esperienze.

Oggi mi rendo conto che non si rinasce. Si muore a fuoco lento. Si dimentica il progetto iniziale, il sogno crolla sotto il peso delle responsabilità. Si deve rispondere a tante cose in una volta: il vivere, il sopravvivere, il divenire, l’identità, la verifica dei valori ricercati… troppe cose per una sola partenza. Troppa dispersione. Nessuno ha mai potuto combattere su diversi fronti contemporaneamente, neanche un emigrato sognatore.

Non ci sono emigrati!!! L’emigrato è la nuova razza col marchio inventata dai nostri tempi. Il terzo millennio dell’Europa che ho sognato ha messo in moto tutta una politica, peggio di una guerra, per sterminare questa razza.


 

Parole sugli specchi

Di Dacia Maraini

Poesie d’amore? Dichiarazioni di solitudine? Memoria di una tenerezza scomparsa? Lunga riflessione sulla separazione? Atto di fuga dalla paura e dal pericolo? Ricordo perduto di terre natie?

Lo specchio qui non fa eco allo storico “narcisismo” femminile 82specchio mio specchio chi è la più bella del reame”?) ma diventa zattera e barca per un rito di passaggio, da una cultura all’altra, da una identità all’altra. Come Alice, queste donne entrano dentro lo specchio che è il liquido mare: “ho attraversato tutti gli oceani, camminato tutto il mondo” come dice Augustina Njemanza, per capire chi c’è al di là della realtà tangibile, al di là dei discorsi di accoglienza, al di là dell’amore che può diventare un “lago ghiacciato” secondo le parole di Marites di Majantoe Tarlac.

Il discorso si fa sussurro, la nostalgia si fa sarcasmo “l’amore è Hollywood” ironizza Mingming Gao. Ma, l’orecchio che guarda, o l’occhio che ascolta si fanno vicini alle parole sommesse di Victoria Velasco Mihai: Ehi amor, “spegni la candela/prima che si consumi”.


 

Specchi diasporici

di Massimo Canevacci

Lo specchio ha una natura ambigua. Apperentemente rimanda la “tua” identità, mentre in realtà riflette qualcosa di simmetrico e che spesso sembra confondere piuttosto che identificare. E’ esperienza alquanto comune, quando ci riflettiamo in specchi  improvvisi e imprevisti, sentirsi come in un senso di dislocazione. “Non posso essere io quello” …

Eppure … fraintendere – specularmente – la propria identità può aiutarci (o terrorizzarci) a ricollocare il senso di chi veramente siamo o che potremmo essere. Se, per caso,  non siamo diventati un altro. O solo altro.  Altro da quello che eravamo abituati a immaginarci. Specchi alteranti. Sentire un proprio altro vicino, di lato  e persino contro l’abituale sè. Un sè alterato e mobile. Vedere un mio io speculare come anche un possibile altro.

Per questo dentro lo specchio scorrono riflessioni che vanno contro ogni possibile affermazione di realtà. Lo specchio è irreale. Molte culture altre: cioè delle nostre alterità interne e delle molte esterne: vedono  proprio in questa ambigua riflessione speculare una molteplicità di pericoli (o di desideri?) pronti a saltarci addosso, non solo quando – rompendosi – lo specchio moltiplica le nostre identità. Lo specchio pare volerci condurre dentro una cornice – iconica e antropologica –  di essere uno, “realisticamente” sempre e solo uno, ma nello stesso tempo ci trascina oltre i confini della cornice e ci fa immaginare molteplici.

E così la tradizione psicologica basata sull’identità fissa – unitaria e compatta – viene sfidata di fronte ad ogni specchio. E allora tradizioni popolari, visioni etniche, romanzi d’avanguardia cercano di controllare o di liberare le molteplici possibilità dell’io che nessuno specchio può imprigionare.

Per  capire queste ambiguità dello specchio e del linguaggio, è sufficiente fare un semplice paragone. Il linguaggio iconico trascritto da ciascuna delle 46 donne sullo specchio è polifonico. Già la scrittura, anzi – devo imparare a pensare e a scrivere al plurale (contro le mie tradizioni logiche e sintattiche) – le scritture utilizzate già di per sè costituiscono grafismi che configurano estetiche decentrate, particolari, differenti e proprio per questo multiple. A partire dalle forme degli specchi e delle loro cornici – tutte così differenti nel loro disperato tentativo di circoscrivere e uniformare la realtà – ciò che le tante donne vi hanno inscritto è qualcosa di difficilmente trasportabile su carta. I grafismi, le frasi, le scritture, gli alfabeti e gli ideogrammi, i disegni, le  cancellature, le frecce: tutto parla in un modo polifonico irriducibile ad una  identità linguisticamente unitaria.

Così, quando leggiamo le stesse (almeno in apparenza) frasi  riportate su carta siamo presi da ansia: scopriamo che non sono la stessa cosa. Il trasloco dalla scrittura su specchio a quella su carta ha appiattito il molteplice e lo ha frastornato in monologismo.

La complessità dei codici si è ridotta ad uno e unificato ogni senso: quello della scrittura lineare. Autoritaria. Mono-logica. Mono-identitaria.

Penso a me che guardo le frasi allo specchio e a un altro “mio” me che legge le stesse (stesse?) frasi su carta. In qualche modo – un ambiguissimo modo – anche io entro dentro alla cornice del testo. Le frasi d’amore mi riguardano. Mi guardano. Mi guardo. L’amore attraverso la diaspora che normalmente mi passa accanto, sfuggente e distratto, ora coinvolge anche me. Un mio-me. Accanto ad altri miei differenti “me”.

La diaspora dell’amore allo specchio mi riguarda.

Spesso la diaspora è parola segnata dallo sradicamento violento, dal dominio eurocentrico, dalla perdita. Ma, fuori da questa sua condizione storica, la diaspora può diventare un  concetto liquido se usato contro la sterilità di una condizione immobile, contro la miseria di un ruolo e di uno status finalmente raggiunto che ci accompagna per tutta la vita come un’impronta digitale. Invisibile e oppressiva.  La diaspora può essere una scelta, forse anche una necessità desiderante verso il transito, lo sconfinamento. Diaspora contro i confini. Diaspora come desiderio di modificarsi negli spazi altri, negli spazi altrui, tra psico-geografie mobili. Diaspora contro l’ordine monologico tutto-razionalizzato, tutto-illuminato.

Una diaspora  alterata e liquida può muovere in modo imprevedibile il senso della parola di origine greca: un inseminare qua e là, un fecondare dispersivo, un disseminare disordinato. Questa nuova diaspora – dalla forzosa migrazione che ha costretto milioni di esseri umani a diventare alieni in terre sconosciute – offre un disordine seminale doloroso ma anche ricco dove questo concetto può  essere rifecondato.

E questa sarebbe la mia dichiarazione d’amore per tutte le quarantasei donne.

Questa diaspora altra può favorire sincretismi comunicativi, ibridazioni visionarie,  meticciati alterati. La diaspora è la matrice di ogni sincretismo contro le identità sedentarie. Identità sedute. Essa è l’alleata del trasloco. Il traslocare non coinvolge solo mobili e suppellettili: esso stravolge l’ordine percettivo delle cose e, in tal modo disordinante, anche  del proprio sè. Nel trasloco di 46 vecchie specchiere si può affermare il desiderio di non ripetere l’ordine domestico, l’ordine di mobili addomesticati e perciò fissi, fissati, mobili-fissazioni: trasloco contro l’ordine domestico, contro la sua stantìa normalità, contro la sua prevista solidità.

Immagino, a questo punto, le donne che – mentre scrivono sulle specchiere – si guardano e mi guardano. Come se il loro sguardo fosse in  qualche modo ancora catturato dal potere mimetico e liscio dello specchio. E allora capisco la connessione possibile tra loro ed una fermata d’autobus per nessun passeggero. Anche la pensilina che non andrà mai nello Zaire riflette. Nel suo corpo sospeso tra zone senza traffico – povero corpo di una biografia interrotta e tornata a vivere grazie a un segno dislocante – vi è narrata l’attesa  per nuovi possibili amori. Qualcosa che riguarda non solo le 46 donne allo specchio, ma anche altri 2005 esseri umani dispersi. Rimanere in sosta per loro, in attesa del loro arrivo: questo il senso possibile della fermata.

Nel museo dedicato alla cultura ebraica di Berlino realizzato da Daniel Libeskind, che rifiuta conciliazioni e intona dissonanze, vi sono elencati lungo due divergenti gallerie tutti i nomi degli ebrei berlinesi – anzi, di belinesi ebrei, ma forse ancora meglio o più spesso berlinesi improvvisamente costretti ad essere solo ebrei, mentre erano tante altre cose – che sono stati uccisi durante il nazismo. Racconta l’architetto che, nel realizzzare l’opera, chiese e  ottenne dalle locali autorità l’elenco di tutti quelle vittime. L’elenco che ho ricevuta da Mauro Folci sui tanti morti per persone che cercavano di trovare nuove biografie attraverso la diaspora e invece hanno trovato le più disperate e disperate morti, questo elenco, proprio nella sua brutale apparente asetticità, riesce a distruggere ogni piatta statistica. E ancora una volta mi hanno rimesso di fronte ad altri specchi. Una pensilina di specchi.

Sosterò alla fermata di un autobus che non arriverà mai per attendere – anche solo per pochi minuti – l’arrivo di questa  assenza.


 

Specchi

di Mario de Candia

E’ necessario rendere l’oppressione attuale anche più opprimente aggiungendovi la coscienza dell’oppressione; rendere la vergogna anche più vergognosa, facendola pubblica…Dobbiamo far sì che la gente sia spaventata dalla sua stessa immagine, per darle coraggio

Il caso di quel giovane che ha confessato finora un buon numero di omicidi, ripropone, in termini che oseremo chiamare drammatici, con il problema dell’inquietudine di una generazione, il reale impasse della nostra società..

Noi, diceva recentemente un ragazzo, fortunatamente per i suoi simili meno impegnato di quello nel risolverli, non abbiamo fantasia, ma problemi. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno fatto poesia, hanno amato, hanno sognato, hanno lottato. Noi non sogniamo, non facciamo versi, ma, soltanto, meditiamo, angosciosamente, presi negli ingranaggi di una società che non abbiamo contribuito a creare, che non ci chiama a collaborare, che non abbiamo voluto. Eppure dobbiamo accettarla, questa odiosa società di massa, che non consente evasioni di libertà, ma soltanto ribellioni inutili.

Le ribellioni portano a tanto.

Non vogliamo negare il disagio spirituale ed esistenziale – tutt’altro, ché non è che una vecchia storia vissuta anche da chi ha sognato, poetato e cantato- di quest’epoca tanto poco poetica nelle sue manifestazioni sociali.  Basterebbe, ed è cosa da poco, la brutalità del linguaggio utilizzato da lungo tempo nei rapporti diplomatici per testimoniare che qualcosa è profondamente mutato, e ormai definitivamente, nella natura dell’uomo.

Non fa più nemmeno impressione quando, a freddo, si pronunciano parole di morte, minacciando cataclismi e genocidi.

Ne conseguono atteggiamenti di diffidenza e di sfiducia nei riguardi della società, proprio nel momento in cui dovrebbero manifestarsi le vocazioni ed avvenire le prime scelte.

Molti scelgono l’indifferenza.

A giudicare da quel che vediamo ora in Europa ed altrove, nei paesi distrutti dalle guerre o atterrati da conflitti di interesse economico o dall’indifferenza altrui, la situazione di fatto e le condizioni sono non diverse né dissimili da quelle che ci ha proposto ed abbiamo visto nel passato.

Percorrendo le ultime strade del mondo o le principali delle maggiori città si ha anche oggi, e molto più viva per tutti, la sensazione, quasi la certezza di un’irreversibile sconfitta.

Ha vinto un “modello”, che ha imposto un costume di vita, un gusto, un’ansia sottocutanea di esistere, stupefatti ed estranei. Non più come soggetti, ma come individui, isolati e separati da sé ed esclusi dal contesto.

Ma anche questa è storia vecchia, che l’Occidente ha coltivato ed esportato in tutto il mondo, nelle forme in cui ha potuto, da più di mezzo secolo, a dir poco.

Proclamare che l’Occidente, la nostra civiltà, è in esaurimento perché ha smarrito il senso dei suoi problemi e perso percezione della realtà, è un’espressione generica e “morbida”, anche autoconsolatoria, che tuttavia indica e nomina, come comune denominatore, il profondo stato di malessere ed il sentimento di insofferenza impotente che, in molti, si prova e si continua a nutrire davanti agli spettacoli che offriamo di noi a noi stessi ed al mondo.

Ci lamentiamo che non esiste più una scala di valori, che la ragione ha abdicato ai suoi poteri e che la vita comune si dipana all’insegna dell’incertezza e della confusione. Ma siamo incapaci di far fronte alla situazione, più propensi, d’abitudine, a spostare al di fuori di noi stessi e delle nostre eventuali decisioni, scelte e prese di posizione, l’attribuzione delle cause della “crisi”, generale ed individuale, della società. Che non ha nulla da offrire: né ideali, né fede, né miti.

Non facciamo altro che aderire ad una sorta di cultura del mugugno, che ha un prezzo sociale anch’essa, obbediente ad un mito romantico e borghese, stantio e vecchio di secoli, della ribellione individuale, muta e silenziosa. In special modo della ribellione chiusa e risolta, guarda caso, all’interno della classe sociale cui si appartiene. Non è altro, in somma, che un atteggiamento di facilità  iconoclasta, travisato per esercizio di libertà, e di tono a dir poco pamphlettistico, che non modifica niente della sostanza delle cose e delle persone. Che non mette in discussione strutture, regole e fondamenti del “gioco”, ma esclusivamente le forme e le apparenze di assetti temporanei di comodità funzionale.

Solo requisitorie vuote, anche di tenore formalmente implacabile, la cui soddisfazione si esaurisce in un esercizio arrabbiato di nominazione della società,  nel bollare a sangue il sistema di ipocrisia, inganno, arroganza, di conformismo, di impotenza.

Nei decenni passati, ed oggi altrettanto, uno dei maggiori mali si ravvisa nel dominio della macchina: per il fatto di esserci circondati di apparati e strumenti di precisione miracolosa, ci siamo talmente smarriti nella loro contemplazione che l’intero nostro pensiero si è fatto meccanicistico.

Nessuno di noi vede più l’esistenza come un’unica storia, raccontata che sia da un genio o da un idiota.

Ora la nostra vita e quella di tutti nel mondo avvengono simultaneamente.

A questo ci hanno costretto i media elettronici, le macchine per l’appunto. Collettivamente, siamo tutti insieme, nella coscienza e nell’inconscio,  come in una sorta di teatro del nostro tempo, che non è più la vecchia sala teatrale, ma un enorme, indecente palcoscenico pieno di altoparlanti, schermi e luci…che percepiamo seduti su fisse, scomode e costose poltrone: spettatori di uno spettacolo che si presuppone come risultato finale l’evasione dalla realtà contemporanea.

I nostri collegamenti, il nostro coinvolgimento nella totalità del mondo, la nostra informazione istantanea sull’ascesa  e caduta, praticamene di chiunque e di ogni cosa, esigono  una visione nuova  e ampliata della realtà. Un cosciente coinvolgimento nella ecologia della nostra vita, un impegno umano, una presa di posizione e di sensibilità sociali.

Che dire dell’arte? Quale è il rapporto preciso che tesse con l’epoca che, ed in cui, viviamo? Solleva i problemi del nostro tempo, è interprete del disfacimento e della crisi astenica della nostra società e cultura? Si fa portavoce dell’insoddisfazione? Denuncia e contribuisce a colmare carenze? Oppure mira unicamente a richiamare l’attenzione su individualismi biograficistici più o meno falsi e scandalosi? Anticipa, svela, rimarca o più semplicemente rimastica con morbosa compiacenza esperienze superate e vecchie continuando a infilare sogni in scatolette?

Vediamo che l’arte d’oggi, genericamente, si appropria di tutto e  pensa in termini di fusioni ed innesti, di ibridazioni e di sovrapposizioni, di simultaneità ed interazioni multimediali. Ma in che modi ed attitudini?

Abbiamo assistito, da spettatori, ad un atteggiamento che trasferisce impunemente nel visibile le circostanze delle proprie nevrosi e follie, con tutto il loro contorno di vuoto pneumatico. Certo, questa come molte altre, è una maniera  

che consente al sistema dell’arte di conservare una certa dinamicità, parallela a quell’arena di paradossi e contraddizioni che è la nostra vita. Ma in realtà, per chi riesce a vedere come si è visto in rassegne vistosamente dubbie e malinconicamente dimissionarie, una solenne trappola fatta di oggetti   confinati nella prigione dell’establishment, come gamma di necroscopie e come monumenti per una storia dell’uomo solidale alla sua volontaria autodistruzione.

L’arte, di qualunque genere essa sia, che volti le spalle al mondo, è incivile nel senso più immediato e assoluto del termine; un’opera fondata sul no comment, su argomenti superati e temi anacronistici, non ha presente né futuro.

Ciò che è strano dell’arte, oggi, è che non ha quasi bisogno di essere vista per fare accadimento. Basta sapere che sta là: come semplice oggetto, che l’azzardo di un pensiero ha costruito per inviarlo costantemente ai nostri occhi come illusione presentabile.

Esiste, di contro, un’arte i cui prodotti rappresentano un attacco frontale allo stato dell’arte della società, agito su una strada di percorso mentale che considera  il racconto  qualcosa di irrilevante in sé, ed anche di livello inferiore. Una possibilità, non facile di certo, di presentare una realtà d’ambito sociale e politico, innalzandola  al livello della storia, di descriverla con la medesima verità e franchezza con cui, secondo i casi, si è costretti a viverla o farla vivere oppure esserne spettatori, più o meno coscienti.

Un’arte reale e di realtà, che non è realismo, che non può essere e non è fantasia; che, insistendo sulla realtà, esige che certi problemi, questioni, accadimenti vengano trasformati in atti di informazione.

L’arte, come un proiettile lanciato ad aprire un varco nello schermo blindato che ci  protegge dai nostri atti e pensieri, e dalle nostre oggettive responsabilità nel mondo, assolve al compito di soddisfare un bisogno di verità, per cui possa risultare chiaro ciò che è stato, ciò che è, ciò che deve essere fatto e come farlo.


 

Certo non è qui la festa, né altrove

di Francesco Moschini

L’elemento centrale della mostra di Mauro Folci all’Acquario, luogo tra i più connotati di Roma per il confronto multietnico e multiculturale, proprio per la sua collocazione all’interno della città, è costituito da un gruppo di 50 vecchie specchiere, di diverse misure, su cui altrettante donne immigrate e profughe hanno scritto, nella loro lingua, una frase d’amore. Una frase d’addio al proprio amore, un amore impossibile, grande quanto doloroso per il distacco, per la lontananza, per la perdita. Una frase vissuta, forte, in grado di svelare il paradosso che il termine stesso “amore” esprime di armonica/caotica sintesi totale. Una scissione per molti indotta, una storia che ci racconta del dolore dell’esperienza della “perdita”, una frattura dunque ma anche il tentativo di una “ricucitura” d’identità attraverso la diffusione ambientale di alcune voci radiofoniche clandestine monitorate un po’ in tutto il mondo e raccolte in un sito web. Le specchiere si presentano nella loro suadente e nello steso tempo respingente bellezza, scelte come sono dal repertorio del cattivo gusto domestico in cui il finto antico, la ridondanza “rocaille” ed il minimalismo pauperista da prodotto autarchico, alludono comunque ad uno stentoreo vissuto logorato e consumato. É strano poi, per le donne coinvolte, esser riuscite a lasciare una traccia, una testimonianza che avrebbe dovuto essere privatissima, in un rapporto serratissimo tra se stesse ed il luogo dove questa traccia veniva lasciata, proprio su un supporto che non può lasciare indifferenti, poiché ti riflette nel momento d’intensità ed intimità in cui scrivi! Dovresti lasciarti andare alle emozioni e sei invece sicuramente distratta dal tuo entrare con la tua immagine nella superficie rispecchiante. Ne consegue allora un gioco di “straniamenti” in cui anche l’esito finale delle scritte depositate con la stessa volontà di esercizio anche calligrafico che corrisponde al presunto bon ton dei poveri, di quelle specchiere, annulla le edulcorate cadute sentimentali, per proporsi invece come ossessivo percorso tra labirintiche scritture, in cui quello che conta è la sensazione del perdersi, del continuo ritornar su stessi in cerca di sicurezze e infine l’ostinazione a riprendere il viaggio sia pur nella disperazione del non saper dove andare. Gli stessi specchi, collocati poi come sono, nell’allestimento dell’Acquario, depositati a terra quasi a formare un grande tappeto di preghiera, anch’esso inospitale, sembrano non volerti neppur lasciar entrare nella mantenuta riservatezza della decifrazione e certo non per difficoltà interpretative, per la babelica presenza di scritture così diverse tra loro, ma quasi a suggerire una sorta di inviolabilità, di impenetrabilità. Con uno esplicito invito a rimanere nella sala solo per traguardare quegli specchi ma senza la violenza del voler decifrarli ad ogni costo. E proprio sull’idea di indecifrabilità insiste anche l’atmosfera creata dai rumori di fondo delle radio clandestine. Come contro canto agli specchi viene collocata, all’esterno dell’Acquario una pensilina da fermata d’autobus, destinata allo Zaire, scelta e trattenuta da Mauro Folci per questa mostra con l’idea dello straniamento nel suo essere defunzionalizzata, senza l’aura dello spazio dell’attesa. Ma questa aura di tensione per il non saper cosa aspettare o cosa aspettarsi è appena stemperata dagli eccessi cromatici della pensilina stessa che nel loro sgargiantismo la riconducono ad una solitaria giostra da fiera, nel suo elementarismo costruttivo, nella sua nostalgica regressione tecnologica fatta di puro montaggio di parti autonome, isolata proprio perché non frequentata, anzi quasi volutamente abbandonata come se qualcuno avesse deciso di non proseguire nell’allestire “lo spazio della festa”. Proprio a suggerire che non è più il caso di pensare ad una festa né qui né altrove. L’altro “oggetto ansioso”, vera e propria testimonianza dell’inquietudine che compare in mostra è un libro bianco che raccoglie oltre 2000 schede asettiche ma puntuali sugli altrettanti morti nel tentativo di arrivare in Europa dopo le restrizioni del trattato di Schengen. La sera dell’inaugurazione, il libro con le schede sui morti dopo il trattato di Schengen, verrà “cantato” da Simona Barbera. Ricorrendo alle parole dello stesso Mauro Folci va chiarito che il risultato dell’installazione all’Acquario Romano è partito più che da un progetto, da un canovaccio: “sono tracce, idee che possono modificarsi in corso d’opera, anche perché lavorando sulla “situazione” o “relazione”, deve necessariamente mantenersi aperta ogni prospettiva. Le tecniche  che abitualmente utilizzo sono quelle dell’installazione, dell’azione e della performance che però preferisco definire “atti di informazione” a indicare un contenimento del dato puramente estetico a fronte di quello contestuale e con riferimento polemico ai linguaggi, nutrono di dati sociali, economici, politici, antropologico – culturali, e se spesso in precedenza è stato l’input politico a impostare le decostruzione linguistica capace di generare il “corto circuito”, in questo nuovo lavoro sarà l’”affettivo”, in relazione a una situazione di nomadismo più o meno coatto, il motore di ricerca. Il lavoro di M. Folci è sempre stato scandito da esperienze vistosamente segnate da accentuate prese di posizione di tipo politico, in cui l’opera è sempre stata considerata oggetto “trascurabile”, nel suo porsi in modo “antigrazioso”, secondo un versante molto frequentato dalle avanguardie storiche ad oggi. Non si tratta mai, però, attraverso i suoi frequenti ricorsi ad una ricercata spettacolarizzazione, di allentare la durezza dell’evidente ed esplicita presa di posizione politica, ma, al contrario, di lasciare quello spiraglio di libertà da ricercare solo attraverso la durezza della “provocazione” di una dura messa a prova fisica e morale che ha già permesso a qualcuno, proprio attraverso l’arte, come ha altrove evidenziato lo stesso artista, di ricavare dalla stessa occasioni reali di “evasione” e di libertà. Ma non è soltanto una reiterata dimensione etica all’interno del lavoro di M. Folci a caricare l’opera di significati altri, anche perché il tutto si inscrive in una vera e propria ossessione, se non una fissazione, all’interno di una ricercata continuità con il suo stesso esordio come artista. Per un artista cioè per cui l’opera è sempre stata evento, accadimento in uno spazio puntiforme e discontinuo, in cui i materiali più diversi si sono sempre equivalsi. Da qui il suo frequente ricorso alla manipolazione degli stessi, senza riscattarli dalla loro dimensione di scarto e di degrado, secondo una tradizione tipica delle avanguardie, ma anche senza quella corrosiva polemica tipica del concettualismo pauperista, quasi a sottrarre gli oggetti al divenire. In questo processo di stratificazione spazio temporale l’opera si colloca non in una dimensione estetica ma in un ideale luogo della memoria collettiva dove soprattutto lo scarto acquisisce rilievo particolare, si riflette e teatralmente si esibisce.

  

47 specchiere su cui altrettante donne, emigrate e profughe che vivono a Roma, hanno scritto nella propria lingua una lettera d’amore. Un amore impossibile, grande quanto doloroso per il distacco, per la lontananza o per la perdita. Una frase forte e vissuta capace di esprimere il paradosso dell’amore come armonica/caotica sintesi totale. Ma il tema di tutto il resto rosolio non è l’amore bensì la differenza che qui evidentemente non è esclusione ma ricchezza.

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